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ANTICO EGITTO e SACRA BIBBIA

ANTICO EGITTO e SACRA BIBBIA

Da almeno due millenni la Bibbia è il Libro Sacro per eccellenza. Vi si narrano le vicende storiche e il percorso religioso del popolo ebraico: gli Ibrihim, (figli di Abramo).
Tutto ha inizio, dunque, con la figura del grande Patriarca: non ebreo, ma fondatore dell’Ebraismo e del popolo ebraico. Egli era, infatti, babilonese (irakeno, diremmo oggi) originario di Ur dei Caldei.

I testi biblici non sempre corrispondono con le testimonianze archeologiche egizie, ma è innegabile il legame fra le due culture.

Il nome Israele comparve per la prima volta nelle vicende storiche dell’Antico Egitto, intorno al 1.250 circa a. C. (le date, però, sono spesso controverse) su una stele rinvenuta a Tebe, in cui il faraone Meremptha, figlio del più celebre Ramesse II, (XX Dinastia) cita le popolazioni e le città assoggettate in una delle sue campagne militari.

Facendo un po’ di conti, il più grande Patriarca della storia, Abramo, dev’essere vissuto un paio di secoli prima. (sempre tenendo conto della controversia delle date, che alcuni studiosi anticipano di altri due secoli) e cioè, ai tempi del faraone Thutmosis III, (XVIII Dinastia).
Proprio in questa epoca, Maria PACE, autrice del libro “AGAR”, colloca le vicende narrate nel suo ultimo lavoro.

L’egiziana AGAR, protagonista principale di questa storia, è la Sposa Secondaria di Abramo, madre di Ismaele, fondatore del popolo Ismaelita.

Israele, l’altro figlio del Patriarca, meglio conosciuto con il nome di Isacco , fu, invece, il fondatore del popolo israelita, cui dette il nome.

Per chi volesse approfondire le vicende che portarono alla formazione di questi due grandi popoli ( e conseguentemente alle moderne credenze religiose) può richiedere il libro: A G A R di
Maria Pace, presso

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FARAONE – EGITTO: da dove arrivano questi termini?

ANTICO EGITTO – FARAONE, EGITTO… da dove arrivano questi termini?

Cominciamo dal termine EGITTO.
E’ la traduzione italiana del greco Ae-gi-Pthos, che a sua volta traduce l’antico termine egizio: Hut-Ka-Ptha.

Il significato letterale è:

DIMORA (Hut) dello SPIRITO (Ka) di PTHA.

E’ la III Dinastia e PTHA è IL Dio Dinastico di MEMFI.

In precedenza il territorio era indicato con altro nome: “Il Paese delle Due Terre”.
Le Due Terre erano: – KEM o “Terra Nera” e
– DESHRET o “Terra Rossa”.

L’unificazione delle Due Terre avvenne dopo varie ed alterne vicende, militari e diplomatiche, e un “Concilio”, in cui si decise di dare quel nome a tutto il territorio, in onore di PTHA, IL DIO CREATORE.

Curiosità: la parola ALCHIMIA deriva proprio da KEM (terra nera), che i tanti sognatori cercavano di manipolare chimicamente per trasformare in oro il materiale vile.

Passiamo al termine FARAONE.
Anch’esso è la traduzione del greco PHAR-ON; traduzione, a sua volta, dell’antico termine egizio: PER-Aa, ossia, PALAZZO-DIVINO o CASA-DIVINA.
Il FARAONE, dunque, non era considerato DIO oppure Figlio di DIO (come nelle prime Dinastie), bensì: Incarnazione di DIO.
Il corpo del Faraone era, cioè, il “Palazzo” in cui viveva lo Spirito del Dio: il dio Horo, per la precisione, figlio di Iside ed Osiride, i quali, tutti e tre insieme, formavano la TRIADE o Sacra Famiglia… niente di nuovo sotto questo Cielo!

I MATRIMONI INCESTUOSI DEI FARAONI

Usi e costumi di Antiche Civiltà.

“Perché i Faraoni sposavano figlie e sorelle?”
La domanda è spontanea ed altrettanto lo è la risposta: “Per conservare puro il sangue!”
Un fondo di verità c’è, ma ci sono altre cause: tradizionali, religiose e politiche.
E l’Egitto non era il solo Paese ad avere questa consuetudine: il babilonese Abramo aveva sposato la sorella Sarai; l’ittita Suppilulumia, di sorelle ne sposò addirittura due.
In realtà, l’incesto era ritenuto un reato e come tale punito, per la gente comune.
Perché, allora, quella pratica nelle famiglie reali?
In Egitto (e non soltanto in Egitto) il trono si tramandava per via femminile: durante il matriarcato, prima, e in retaggio di tale consuetudine, dopo.
Era la Grande Consorte Reale a possedere nelle vene il sangue divino (era sempre Figlia di Dio: basta dare uno sguardo al Tempio della regina Hutsepath) e lo trasmetteva alla principessa ereditaria assieme al diritto al trono.
Il principe ereditario lo riceveva dopo un complesso cerimoniale:
– le Nozze Divine della principessa nel Tempio Dinastico con il Dio Dinastico (Karnak, nel Nuovo Regno): uno dei misteri dell’Antico Egitto.
– Le Nozze Regali con la principessa
– l’atto sessuale e la mescolanza del sangue.
Lo Spirito Divino, attraverso tale cerimoniale, passava dalla principessa ereditaria in quello del principe ereditario: futuro Faraone. (di ciò abbiamo già parlato)
In teoria, ogni uomo poteva diventare Faraone, sposando la principessa ereditaria o la Regina in carica.
Il pericolo di guerre dinastiche tra principi e di conquista da parte di stranieri era reale ed elevato.
Il Faraone in carica, dunque, alla nascita della principessa ereditaria, le assegnava un marito: uno dei principi, naturalmente.
Così fece Seti I con suo figlio Ramesse II (che pure era già sposato con la borghese Nefertari)
Così fece Thutmosis I col figlio Thutmosis II, che lo dette in marito alla celeberrima Hutsepsut
Nota : si suppone che sia stato per evitare una guerra dinastica che la principessa Maritammon, figlia di Akhenaton e alla morte di Thut-ank-Ammon, si vide costretta a sposare il generale Horenreb, diventato successivamente Faraone: un Faraone usurpatore. Come i suoi discendenti: i

Oh mio Dio!!! Un uomo nero accanto a me!

Realmente accaduto nella compagnia aerea TAM.
Una donna bianca di circa 50 anni accomodatasi al suo posto in aereo si è accorta che il passeggero accanto a lei era un uomo di colore.
Visibilmente furiosa, ha chiamato la hostess.
-“Qual è il problema, Signora?”
-“Non lo vedi? Mi è stato assegnato un posto accanto ad un nero, non posso sedere affianco a lui! Devi cambiarmi il posto!”.
-“Per favore, si calmi.. vedrò cosa posso fare”.
Dopo qualche minuto la hostess di ritorno:
-“Purtroppo, tutti i posti a sedere sono occupati, mi informerò dal comandante”.
[…]
-“Signora, come le ho detto, non c’è alcun posto vuoto in questa classe, in economy ma il comandante e mi ha confermato che ci sono dei posti liberi in prima classe.”
E prima che la Signora dicesse qualcosa:
-“E’ insolito per la nostra azienda consentire ad un passeggero di cambiare la classe economy con la prima classe. Tuttavia, date le circostanze, il comandante pensa che non sia opportuno far viaggiare un nostro passeggero accanto ad una persona sgradita” e rivolgendosi all’uomo di colore:
“Signore, se lo desidera, può prendere i suoi bagagli, le abbiamo riservato un posto in prima classe…”
Tutti i passeggeri vicini, scioccati dal comportamento della signora, hanno iniziato ad applaudire, alcuni anche in piedi.

butterfLy

E mi ritrovo ancora una volta a lottare contro il mio istinto: una voglia irrefrenabile di buttarmi a capofitto nelle illusioni. Combattere contro il mio desiderio nascosto di felicità e amore, contro la costante voglia di quelle farfalle nello stomaco.

#3 – giancarlo

Che resti tra noi.
Sono due anni che lo faccio: vado in garage prima dell’alba, accendo la moto e parto. Tutte le domeniche. C’è silenzio e per i primi tre mesi quelli del primo piano – madre padre e un figlio – si sono lamentati alle riunioni condominiali; in realtà si lamentava solo la madre, poi ha smesso di lamentarsi e ha smesso di salutarmi.

L’alba in tangenziale sorge come una forma di giustizia oltreumana. Diffonde un velo di bellezza sui casermoni coi davanzali sfioriti, sui pochi panni appesi lì fuori che forse sono solo stracci da cucina, sui capannoni della Star, sull’antenna di Mediaset , sul quadrato giallo-blu dell’Ikea. Diffonde una calma gentile sulla miseria. Una tregua, un miracolo di cui nessuno sembra accorgersi.

Di solito viaggio sulla corsia a destra, senza superare i 100 chilometri orari; delle volte non faccio altro che percorrere la tangenziale, prendere un’uscita a caso, riprendere la tangenziale nella direzione opposta e tornare a casa per la colazione; altre volte mi spingo fino all’A4, verso Venezia o sulla tangenziale ovest e poi verso Genova, sull’A7. Spesso non mi fermo o faccio solo una breve sosta per benzina caffè e una sigaretta.
Domenica scorsa era il mio compleanno: cinquant’anni. E non m’importa molto che siano cinquanta o quarantotto o sessantadue: non ho avuto nessuna crisi dei cinquanta, così come non ho avuto nessuna crisi per i quaranta e i trenta. Ho avuto crisi per altri motivi. L’argomento degli anni che passano l’ho sempre usato soltanto per riempire quelle conversazioni che rischiano d’incepparsi in silenzi imbarazzanti.

Domenica scorsa, comunque, ho preso un’uscita della tangenziale ovest, se non mi sbaglio era il raccordo con la Vigentina: per il mio compleanno volevo farmi un caffè con tutta la calma del mondo, leggermi un giornale, girovagare per un paesello sconosciuto, uno a caso.
Viaggiavo in seconda, il sole era tiepido e il motore secco e regolare. Mi sono fermato a Gropello Cairoli perché mi piaceva il campanile, sembrava essersi incastrato per sbaglio col resto della chiesa: devono averlo aggiunto nell’Ottocento su una struttura del Cinquecento, secolo più secolo meno. Vi giuro che se fossi stato io l’architetto del campanile avrei fatto qualcosa di meglio, di più organico; ma mi ha fatto simpatia e così mi sono fermato lì. Mentre sbirciavo le brioches attraverso le vetrine di un bar ho notato una bicicletta rovesciata, c’era un mazzo di ortensie riverso sull’asfalto. Una vecchietta provava a piegarsi, senza guardarsi in giro. Mi sono sfilato il casco e le ho raccolto i fiori; mi ha fatto un mezzo sorriso.
“Sa signore, la mattina presto di solito non si parla mai con nessuno” si scusava per la sua bocca senza dentiera “a quest’ora vado solo al cimitero e lì di solito non parlo, mi capisce no? Grazie. Grazie tante” Il manubrio della bici si era stortato. Ho dato un’occhiata alla mia moto parcheggiata poco distante: forse la signora non sarebbe stata a suo agio aggrappata al corpo di un centauro cinquantenne. “L’accompagno al cimitero, signora. Faccio due passi”

Aveva un modo di camminare tutto particolare, sembrava mettere la massima concentrazione in ogni passo. I fiori erano per la lapide di un ragazzo che il 12 aprile 1979 aveva 28 anni. “È morto in Jugoslavia”. Io non le chiesi niente, mi spiaceva per la sua bocca sdentata e per il silenzio del cimitero. Imitai il suo segno della croce.
“Venga da me. Le offro un caffè. E non badi alla casa, che devo ancora fare i mestieri.”
La casa, naturalmente, era il regno dell’ordine e della pulizia: soprammobili discreti intorno a una vecchia televisione, tovagliette di pizzo bianco, foto incorniciate d’argento e tutti gli oggetti di una vita che percorre i suoi binari ad un ritmo lento e dignitoso. La signora mise la moka sul fornello, mi fece sedere, a mezza voce mi pregò di scusarla mentre andava un attimo in bagno. Tornò con una pila di fotografie e un sorriso pieno di denti “signore, non mi ha ancora detto da dove viene”. Le raccontai che i miei genitori erano di Savona, che mi ero trasferito a Milano per studiare e poi c’ero rimasto per sposarmi. “Prego, prenda un biscotto, sono al burro. Scusi, non ho molto altro in casa. Lei ha dei figli?”
“Uno solo. Si chiama Andrea. Ha compiuti diciotto anni il mese scorso, il 23” Le dissi che ero divorziato e che io e la mia ex-moglie facevamo i turni: una settimana Andrea stava a casa mia da lunedì a venerdì, la settimana dopo durante il weekend “oggi è dalla madre”.
“Mi spiace, è un peccato. Faccia attenzione che il caffè è caldo.” Le spiegai che i rapporti tra me e la madre di Andrea erano ottimi “si figuri che lavoriamo anche insieme!” Pensai che Andrea non mi aveva ancora chiamato per gli auguri, ma d’altronde erano le dieci di una domenica mattina.
Svuotai la tazzina e subito la signora l’afferrò, la lavò e la mise a sgocciolare sopra uno straccio.

“Posso dare un’occhiata alle fotografie?”
“Prego, gliele ho portate apposta!”
Feci scorrere una trentina di foto, c’erano soprattutto ritratti di persone anziane: un arabo con una tunica di un blu sbiadito, di spalle, contro un muro bianco scalcinato che gli arrivava fin quasi al collo, oltre il muro c’era il mare, o forse era un oceano; un ritratto della signora di almeno trent’anni prima, in questa stessa casa; una donna seduta nella corrente del fiume, con un costume nero che lasciava impietosamente scoperte le smagliature della schiena e con una cuffia bianca a raccoglierle i capelli.
“Sono stupende signora.”
“Le ha fatte mio figlio” mi dava le spalle mentre passava lo straccio su una mensola, alzando i soprammobili “era un’artista”. Era quello della lapide. “E’ morto in Jugoslavia”.

Iniziò a raccontare con calma, girandomi intorno mentre continuava a spolverare, mentre rassettava il telo che copriva il divano, mentre passava uno straccio sui vetri, mentre asciugava la tazzina rimasta a sgocciolare e la riponeva nella credenza col vetro dipinto.

Si chiamava Michele. E ai tempi fare l’autostop era una cosa normale: erano gli anni 70. Il piano era di arrivare fino a Teheran in autostop. Voleva fare un reportage sulla rivolta contro lo Scià: volti giovani invasati, odio e amore di dio negli occhi. “Si era stancato di fotografare i vecchietti, era giovane. Mi ha detto che era l’occasione della vita. Aveva da parte un gruzzoletto e con le foto di quel reportage era sicuro di fare il grande salto. Il grande salto, diceva così.” I voli per Teheran erano sospesi, l’autostop era un’ottima soluzione: avrebbe scattato fotografie in Jugoslavia, Bulgaria, Turchia; cattolici, ortodossi, islamici sunniti e alla fine gli sciiti dell’Iran; villaggi tagliati in due dalla strada, paesaggi desolati, i volti di chi gli avrebbe offerto un passaggio.
“Non dormiva più la notte, mi creda. Aveva gli occhi infuocati, non potevo fermarlo.”
Pensai agli occhi di ghiaccio dell’ayatollah Khomeini; nel 1979 avevo 18 anni, come mio figlio, smettevo di mangiare quando in televisione trasmettevano le immagini della sua rivoluzione. Puntava il dito verso la folla, il volto e la barba sembravano squassarsi ad ogni parola urlata in una lingua malvagia – ce l’aveva con gli Stati Uniti, ce l’aveva con noi – gli occhi restavano immobili.

“Sono venuti qui in due, con la divisa il cappello e tutto il resto. Mi hanno detto che era morto nelle montagne. Forse volevano rubargli la macchina fotografica ed era finita male.” Era solo all’inizio del viaggio.
“Vuole qualcos’altro, un bicchiere d’acqua frizzante. Mi spiace ma non ho molto nel frigo.”
“Sono a posto, grazie signora.”
Al ritorno andavo più veloce. La tangenziale si era riempita: i milanesi della gita fuori porta. Comunque si scorreva ancora bene.

Che resti tra noi, dovevano essere circa le undici, forse le undici e mezza.

…inedito

L’osservazione attenta del mondo.

Silenzio. Pierre si muove leggermente sulla sua sedia, poi torna ad osservare qualcosa fuori dalla finestra. Se ne sono andati tutti, adesso, li ha seguiti con lo sguardo fino a quando non hanno svoltato oltre l’angolo, in fondo alla strada, e sono spiriti di colpo dalla sua vista. Sono ragazzi normali, che passano un’ora o due al pomeriggio in quei giardinetti proprio lì accanto, a raccontarsi chissà cosa, magari delle storie un po’ buffe, tanto per farsi tutti assieme delle belle risate ogni tanto. A Pierre piace guardarli dalla finestra, non c’è niente di male, pensa a volte tra sé, osserva quei gesti, quelle espressioni, ed è per lui quasi come essere lì, insieme a loro.
L’altro giorno due si sono litigati, hanno alzato la voce e si sono scambiati persino qualche spintone. Non c’è niente da meravigliarsi, pensa Pierre, certe volte possono capitare cose del genere. Sono piccole prove per mostrare il carattere, la personalità, e nient’altro. Lui ha continuato ad osservarli da dietro la tenda, si sentiva forse di patteggiare per uno piuttosto che l’altro, ma ha cercato di restare neutrale. Poi tutto è rientrato, ognuno di loro è riuscito a porre un limite a quel confronto, persino quelli che sono rimasti in disparte, quelli che erano rimasti soltanto a guardare.
Un paio di volte Pierre è passato quasi con indifferenza da quel giardino, proprio nell’ora quando c’erano tutti: voleva sentire le loro voci, osservare più da vicino quei ragazzi non ancora maturi, comprendere meglio i loro gesti e quei loro atteggiamenti. Ma è difficile per lui mostrarsi serio e disinteressato, con la testa magari dentro le nuvole, come un passante qualsiasi. Conosce ormai quasi tutti, persino i loro comportamenti, i loro modi, e allora quelle volte è soltanto rimasto lì, ad osservarli più da vicino, ma qualcuno di loro lo ha forse notato, si è girato di spalle sollevandosi dalla panchina, per dire agli altri, magari, qualcosa di spiacevole nei suoi confronti. Gli altri ragazzi probabilmente hanno guardato Pierre, hanno puntato gli occhi su di lui come sopra una bestia strana, lui che si sente così ordinario, normale, e lo hanno fatto fuggire con quel loro atteggiamento, anche se in fondo lui non ha capito del tutto neppure il perché.
Sono stato a lungo ammalato, quando avevo proprio la vostra età, avrebbe potuto inventarsi così, su due piedi, tanto per giustificare la sua curiosità. Ma non è vero, non c’è stata nessuna malattia, niente di niente, se non una normalissima curiosità per quei ragazzi così allegri, così pieni di vita, tanto da riempirgli il cuore di gioia, in certi giorni, con quei loro semplici, spontanei, buffi atteggiamenti. E’ difficile mostrarsi attratti da quell’età senza essere subito scambiati per qualcos’altro, intravedere rapidamente un interesse che non attraversa neppure per scherzo il cervello di Pierre. Lui questo lo sa, così lascia correre, e si accontenta di mettersi seduto alla finestra del suo appartamento, e di osservare anche soltanto per qualche minuto quella gioventù che quasi lo sfiora. Gli piace guardare e studiare quella maniera per lui distante e istintiva di interpretare il mondo e la vita, perché è solo questo che riesce a farlo sentire ancora un po’ vivo, capace di gioire e meravigliarsi con loro, fuori da quella tomba in cui le abitudini della vecchiaia lo hanno ormai rifilato.

Bruno Magnolfi

Fantozzi in paradiso

Questa è la terza volta che Fantozzi se ne va in paradiso. La prima, proverbiale, nel suo film come sempre esilarante, la seconda volta, nel marzo scorso (poi smentita) e l’ultima nella giornata di ieri. Anche stavolta la notizia si è rivelata infondata e come lo stesso Villaggio ha riferito all’ANSA: “non si è mai sentito così bene…ma andrà a fare un check up completo!”.
Sembra che il buon Ragionier Ugo Fantozzi as Paolo Villaggio voglia essere spedito in un posto migliore prima del dovuto ma fortunatamente “chi ride campa cent’anni.”
Alcuni siti attribuiscono “la bufala” al sito dell’ANSA ma pare che sia la “bufala nella bufala”.
Tutto sommato siamo contenti così, il buon comico la prende sul ridere e noi non potremmo fare diversamente.
Ciao Ugo, facce ride’!

Cervello

Sneocdo uno sdtiuo dlel’Untisveria di Cadmrige non irmptoa cmoe snoo sctrite le plaroe tutte le letetre posnsoo esesre al pstoo sbgalaito è ipmtortane sloo che la prmia e l’umiltia letrtea saino al ptoso gtsiuo il rteso non ctona.. il cerlvelo è comquuene semrpe in gdrao di decraife tttuo qtueso coas pchere non lgege ongi silngoa ltetrea ma lgege la palroa nel suo insmiee… vstio???

Berlusconi vs Monti

Per dovere di cronaca e di memoria storica alleghiamo il verbale di riunione del senato per la seduta del 17 novembre 2011 con il seguente ordine del giorno:
“Governo, accettazione delle dimissioni del IV Governo Berlusconi e composizione del Governo Monti”