Categoria: racconto

#3 – ARIA E ACQUA

04 ottobre
Aveva smesso di piovere da un paio d’ore, era ora di tornare a casa.
Nuotò ancora una volta fino al canale della centrale e vi si infilò come aveva fatto decine e decine di volte. Ma stavolta era diverso. Nei giorni precedenti aveva avvertito in alcuni istanti il desiderio di ritornare, nonostante le piogge fossero ancora nel pieno. Non riusciva a spiegarselo, non gli era mai capitato, ma avvertiva una piacevole sensazione nell’attraversare quella grata di metallo che lo separava dal mondo “civile”.
Si interrogò su quale fosse il motivo di quella nuova emozione ma non ne trovò.
Ritrovò i suoi vestiti li dove li aveva nascosti e li indossò. Si avviò a passo svelto verso la città.
Arrivato a casa notò ancora quella ragazza, era nel giardino della casa accanto… non sapeva che fosse una sua vicina. Il suo cuore ebbe un battito strano.
Rientrò in casa e salutò la madre senza preoccuparsi di guardarle le labbra per vedere se rispondeva al saluto.
Poi andò in camera e accese lo stereo.
Aprì le tende della camera e la vide ancora li, guardava verso di lui ma probabilmente non riusciva a vederlo a causa del riflesso del sole sui vetri.

#2 – ARIA E ACQUA

15 settembre
Quando per la prima volta me lo trovai davanti reagii piuttosto male: iniziai ad urlare e cercai qualcosa per colpirlo. Lui scappò subito e non lo rividi per alcuni giorni. Ebbi modo di ripensare a quell’incontro e mi resi conto di qualcosa che inizialmente mi era sfuggito: il suo sguardo. Era come assente, come se non vedesse quello che stava succedendo o non se ne curasse il che era in forte contrasto con quello che stava avvenendo la mia curiosità era prepotentemente alimentata da questo particolare.
Cinque giorni dopo lo rividi davanti al negozio di bici, era buio e diluviava per cui il suo aspetto non era molto diverso da quello di un qualsiasi altro ragazzo della nostra età.
Mi avvicinai, appena si accorse di me fece per andarsene ma lo chiamai e gli chiesi se potevo offrirgli un passaggio fino a casa visto che non aveva ne ombrello ne un impermeabile. Rispose con un NO secco e continuò a camminare lentamente sotto la pioggia battente. Ero sempre più incuriosita e decisi di aspettarlo davanti casa mia per vederlo rientrare.
Aspettai per più di 2 ore ma non rientrò e non lo vidi per alcuni giorni finché una bella e tiepida mattina non riapparve.

Stava camminando tranquillo quando una macchina puntò i fari proprio sulla sua faccia, mise una mano davanti all’occhio per proteggerlo dalla luce abbagliante stando bene attento a non allargare le dita. Era la pazza che stava per aggredirlo qualche giorno prima, allungò il passo ma la vide affacciarsi dal finestrino e muovere le labbra. Rispose di NO, non importava cosa gli stesse dicendo. Continuò a camminare verso la centrale elettrica, aveva voglia di togliersi quegli stracci di dosso ma la presenza di quella seccatrice glielo impediva. Godeva dello scorrere delle gocce sulla pelle ma gli dava fastidio la stoffa che si appiccicava sulla schiena, sulle cosce, voleva liberare finalmente i piedi da quelle trappole che sua madre lo costringeva a portare.
Quando finalmente arrivò vicino al canale della centrale si tolse le scarpe e distese la pelle tra le dita massaggiandola poi si immerse nell’acqua nera come la notte e sparì lasciando dietro di se solo un piccolo mulinello nell’acqua che si esaurì dopo qualche istante.

Frammenti di vite

Esco di casa, come al solito, di corsa.
Mi chiudo la porta alle spalle e, come ogni mattina, un attimo dopo ho il sospetto di aver dimenticato qualcosa.
Rovisto nella borsa scendendo le scale: mannaggia ‘ste borse, grandi o piccole che siano hanno il potere di ingoiare qualsiasi cosa.
Mi dirigo verso la fermata dell’autobus: tasto il cellulare, le chiavi di casa, gli occhiali…ok c’è tutto, posso rilassarmi. Arrivo alla pensilina; il display, come al solito, non funziona: 01 gennaio 2001, sì vabbè!
Fa freddo, non mi va di aspettare, meglio camminare, almeno mi riscaldo.
Quando sono a metà tra una fermata e l’altra masochisticamente mi giro: eccolo!
Non mi resta che fare il gioco di Pollyanna: ci sarà pure un lato positivo nell’aver perso l’autobus, anche se oggi ho una fretta dannata.
Sì, l’ho trovato! E’ sempre lo stesso ma è sempre valido: cammino, mi muovo, consumo calorie; fa bene alla circolazione ed alla linea.
Arrivo alla fermata successiva: dall’angolo della strada vedo apparire un altro bus che fa per me.
Attendo diligentemente che la gente scenda, dalla porta adibita alla salita, e poi salgo. Si libera un posto: che bello mi siedo. Ho il computer che pesa, almeno lo poggio sulle ginocchia. Solo ora mi accorgo che una cosa l’ho dimenticata: il libro, mio inseparabile compagno di viaggio. Che peccato: sono ad un punto cruciale!
Poco male. Da quando ho rinunciato alla macchina per andare al lavoro ho imparato a tenermi compagnia immaginando le vite degli altri, attraverso gli sguardi, i gesti, l’abbigliamento di chi mi circonda.
Comincio dalla signora seduta di fronte: avrà una sessantina d’anni, occhi bassi, abito nero, con la mano sinistra si tiene stretta la borsa; magari ha paura degli scippi e, da come è vestita, si capisce che, la pur piccola somma che porta con sé, per lei deve essere un piccolo tesoro; con la mano destra giocherella con la catenina che porta al collo.
Intravedo una medaglietta con la foto di un ragazzo giovane. Sarà un figlio scomparso prematuramente. La signora la stringe, la accarezza, sospira, sicuramente sta pensando a lui. Mi chiedo come sia morto, se la sua gioventù sia stata stroncata da una crudele malattia o da un incidente.
E’ atroce. Come possa una mamma sopravvivere a tanto dolore e convivere con esso giorno dopo giorno è un mistero. Per qualche secondo il dolore di quella mamma diventa il mio dolore e me ne sento avvolta.
Giro lo sguardo di pochi gradi. Davanti a me due ragazzine di 14-15 anni lottano con degli zaini pesantissimi, spostandoli di qua e di là tentando inutilmente di non intralciare il corridoio. Una è magra, carina, occhioni grandi ed espressivi appena appena truccati; indossa un jeans attillato ed una maglietta che lascia intravedere un po’ di pancia. Tremo solo a guardarla io che sono freddolosa ma, si sa, a quell’età, non c’è sacrificio che tenga per apparire. E’ consapevole della sua bellezza. L’amica è grassa, sciatta, ha uno sguardo inespressivo; sotto al maglione lungo e informe, che non basta a nascondere un corpo senza grazia, si intravedono le gambe: grosse e tozze. Non ci vuole una laurea in psicologia per capire la sofferenza che tracima da quell’anima. Eppure ha un bel viso. Sento arrivare dal cuore un’onda di tenerezza: quanto vorrei farle comprendere che ha delle enormi potenzialità.
Basterebbe una dieta adeguata e tante iniezioni di fiducia per far uscire il cigno dal brutto anatroccolo. Purtroppo ora non può capirlo e si rintana nella sua sofferenza dove si consola mangiando cibi che non la saziano.
Questi pensieri mi accompagnano fino alla mia fermata: corro verso la funicolare ed entro un secondo prima che si chiuda la porta.
Solo per un attimo osservo la signora seduta accanto a me: prende uno specchietto dalla borsa e controlla il trucco. Indossa una pelliccia (rabbrividisco, io sono vegetariana e le pellicce amo vederle solo addosso ai loro legittimi proprietari).
Ha labbra a canotto lucide e rosse, zigomi da criceto e collo rugoso: chissà quanto ha speso per ridursi in quel modo! Deve essere di quelle che hanno un solo amico: lo specchio. Più che amico, un tiranno, un padrone. Mi fa un po’ pena. Deve essere stata una ragazza molto bella e non accetta il tempo che inesorabilmente passa su tutto e che, su tutto, stende la sua ombra. Rifletto sui miei quasi cinquant’anni e sulla nuova sensibilità che mi hanno regalato e ne sono felice!
La signora ogni tanto, mentre picchietta sull’accuratissimo trucco per sfumarlo, mi guarda di sott’occhio: chissà cosa pensa di me che non sono truccata, che porto stivali senza tacco e che indosso un comodissimo piumino! Forse anch’io le faccio pena.
Ma sì, in fondo il mondo è bello perché è vario!
Arriva la signora che chiede l’elemosina e, in ogni carrozza, ripete la solita tiritera. Si trascina dietro, su e giù dal Vomero a via Toledo, per tutta la giornata, una bella bambina, annoiata e rassegnata.
Chissà che abisso di povertà e di soprusi si porta dentro questa donna; chissà cosa diventerà questa bambina dagli occhi tristi e se la sua strada è già segnata e non potrà che essere una mendicante.
Siamo arrivati. La funicolare spalanca le sue porte e vomita il suo carico umano che si riversa e si disperde per via Toledo: frammenti di vite che, per cinque minuti, si sono incrociati!

Cause di guerra n. 2.

Maledetti, ho pensato immediatamente appena li ho visti. Non riuscivo neppure a riflettere quale fosse il comportamento migliore da tenere, di fronte a quella specie di sfida; avrei forse voluto semplicemente fermarli, se avessi avuto questo potere, o convincerli in qualche maniera ad andarsene da tutt’altra parte: quella strada non era per loro, avrebbero dovuto saperlo ancora prima di venire a sfilare, nessuno di quei debosciati poteva transitare da lì, proprio da noi, che avevamo abitato da sempre le case che costeggiano la via, che non avremmo mai permesso lasciar passare sotto silenzio una cosa del genere.
Quando ho veduto quel loro corteo di imbecilli transitare proprio sotto alla finestra della mia abitazione, ho avuto per prima reazione come una mancanza, quasi uno svenimento: mi pareva del tutto impossibile, inaudito, noi dovevamo reagire, ho pensato immediatamente, ma non sapevo per nulla quale sarebbe stato il modo migliore per far pagare a tutti loro, a quella gente indegna, un affronto del genere. E’ stato un difetto il mio, lo confesso, sarebbe stato meglio se avessi avuto una reazione più forte, che mi fossi comportato maggiormente da uomo, ma certe volte la debolezza d’animo è incontrollabile, e anche se mi montava il sangue alla testa a vedere quella gente piena di odiose bandiere e di assurdi striscioni, a me è riuscito soltanto di stringere i pugni, e continuare semplicemente a guardarli, fino a quando la manifestazione ha smesso di scorrere ed è confluita verso il viale.
Fin da ragazzo ho sempre avuto grande antipatia per i facinorosi che scendono nelle piazze e sembra che vogliono cambiare in un attimo tutte le cose, anche se non ho mai avuto niente da dire, almeno fino a quando se ne sono rimasti lontano da me e dalle mie cose. Ma adesso, vederli passare proprio sotto al mio naso, come se questa strada fosse stata una delle loro, quelle che frequentano abitualmente, è stato veramente qualcosa di intollerabile. Avrei voluto semplicemente avvertire tutti i miei vicini di casa, dire loro che si guardassero bene dal confondere quelle ragioni riportate sopra gli striscioni di quella gente, con i nostri storici modi di essere, così distanti da quelle idiozie, e che ognuno di noi, ben chiuso nel suo appartamento, preparasse la giusta reazione ad un comportamento di così aperta ostilità nei nostri confronti.
Quando poi mi sono deciso a tirare fuori dall’armadio il mio fedele fucile, forse era già troppo tardi, anche se ero convinto che tanti dei miei vicini di casa stessero facendo la mia medesima scelta, tanto che in quegli attimi li sentivo tutti con me, come a darmi almeno un supporto morale, di cui forse avevo anche bisogno. Mi sono affacciato alla finestra con il fucile già carico, ma lungo la strada ormai non c’era più quasi nessuno, e anche questo fatto mi ha gettato nel panico, come se ormai avessi perso il momento fondamentale.
Per questo, quando ho notato la donna, quella persona che conoscevo soltanto di vista, ma che viveva in una casa a poche decine di metri dalla mia abitazione, non avuto più alcuna perplessità. Lei stava andando incontro proprio a loro, non c’era alcun dubbio, si era lasciata convincere dalle loro idee, si stava gettando sicuramente nelle braccia del nostro nemico, e questo era troppo, era impossibile accettare una cosa del genere. Ho sparato senz’altro mirando alle parti vitali, ma avrei voluto, oltre che ammazzarla all’istante, farla scomparire del tutto, distruggerla, disintegrarla, e insieme a lei tutti coloro che soltanto per un attimo avessero pensato di comportarsi nella stessa maniera di quella strega. Poi sono rientrato nella mia stanza, spossato, ma mi sono sentito subito a posto con la mia coscienza.

Bruno Magnolfi

Cause di guerra.

Adesso c’è una certa calma lungo la strada, ma si avverte nell’aria una tensione che è pronta ad accendersi di nuovo da un attimo all’altro. Protette dai grandi e vecchi portoni condominiali di legno, qualche persona si è appena affacciata ad osservare la via, e per il resto è rimasta dentro gli ingressi, a parlare sottovoce di quello che ormai sta accadendo, meravigliate, perplesse, scambiando parole di sgomento e stringendosi ognuna nei propri panni.
La grande manifestazione è proprio passata di lì, una strada quasi anonima della città, dove non era successo mai niente, normalmente ignorata da cose del genere, ed ha come spiegato, per la prima volta, agli abitanti di quel quartiere, che ci si attende una presa di coscienza anche da loro, da tutta quella gente benpensante e integrata come senz’altro si credono d’essere tutti quelli che abitano in quella zona.
n fondo indignarsi non è certo retaggio soltanto di alcuni facinorosi, anzi, sono i tranquilli borghesi che più di altri hanno buoni motivi per fasi sentire. Questo sembra aver voluto sottolineare il corteo che è passato lungo la strada, e che ha lasciato alle spalle, in quegli abitanti, un senso di incerto, uno strano presagio, assieme alle cartacce e ai rifiuti sui marciapiedi e lungo la via.
Una donna improvvisamente esce di casa da sola, forse qualcuno l’osserva, nascosto tra le tende della propria finestra; lei accenna una corsa leggera, poi continua a camminare con passo veloce, rasentando i muri delle abitazioni. Porta una giacca di lana sopra le spalle, e una specie di scialle sopra la testa; sembra diretta verso la piazza, in fondo alla strada, forse cerca soltanto di raggiungere uno dei negozi che si aprono là, da quella parte, magari la farmacia, sicuramente le serve qualcosa di urgente per cui è stata spinta ad uscire.
La donna si muove senza neppure guardare dietro di sé, pare che abbia interesse soltanto per ciò da cui è stata spinta lungo la via, come se niente potesse distoglierla da ciò che si è prefissa di fare. Niente si muove adesso lungo la strada, escluso lei, eppure si percepisce che la manifestazione non è molto lontana, forse si è soltanto fermata lungo il vicino viale, chissà.
Niente pare più innocuo e poco importante di una persona che se ne va come quella donna per la sua strada, indifferente quasi a tutto quanto succeda, magari senza neppure immaginarsi che la farmacia e gli altri negozi adesso sono chiusi, con le serrande abbassate, ad evitare di essere presi di mira da qualche gruppo di scalmanati che non ha niente di meglio da fare che scagliarsi contro qualche bottega.
Così tutto sembra scorrere in qualche maniera, e in fondo, nella casistica di tutti gli avvenimenti possibili, può darsi benissimo che una donna possa avere bisogno di uscire per strada e raggiungere qualcosa che le sembra estremamente importante, superiore anche al rischio di essere fermata da qualcuno per futili motivi, forse addirittura soltanto per il gusto di farlo.
Poi, per un attimo, qualcosa brilla lucente nell’aria, sopra al davanzale di una finestra del primo piano. La fucilata parte senza preavviso, ma producendo come un rumore qualsiasi, un elemento urbano subito composto tra le cose possibili in una città. La donna si accascia sul marciapiede senza neppure un lamento, e resta lì, come un fagotto di stracci, a riprova del fatto che certe volte persino una persona inoffensiva come lei può essere il simbolo di una guerra di cui non si è neppure riusciti a capire la natura. Tutti gli altri non hanno visto un bel niente, ci sarà tutto il tempo per prenderne atto.

Bruno Magnolfi

Soltanto questione di tempo.

Resto immobile, quanto più mi è possibile, fermo, ad osservare il silenzio nella mia stanza, gli oggetti di sempre che mi circondano, questa luce al crepuscolo che cerca ancora di dipingere tutte le cose con colori sempre più scuri, mentre poco per volta prosegue a ritirarsi via, fuori dalla finestra, e poi ancora indietro, fino a raggiungere, laggiù, il profilo dell’orizzonte. La mia solitudine non è spaventosa, anzi, è l’unico momento in cui posso pensare e immaginare. Soltanto ieri sono corso di nuovo da lei, nella stessa esatta maniera come mi ero riproposto di non fare mai più. Sono sicuro che lei non meriti la mia dedizione, le mie attenzioni, ma cosa importa, mi chiedo, piuttosto che proseguire a nuotare in questo vuoto che spesso mi pesa, va bene anche così.
E’ un comportamento stupido il mio, è evidente a chiunque che dovrei sforzarmi di cambiare, mostrarmi più distaccato ai suoi occhi, meno assiduo di come proseguo imperterrito ad essere. Lei mi guarda, con sguardo perlopiù indifferente, come fosse incapace di provare delle vere e proprie emozioni, ed i suoi comportamenti in genere si limitano a trattare tutto con un certo distacco. Ma non è sempre così, io lo so, ci sono dei casi in cui il suo autocontrollo si fa meno serrato, e riesce a dimostrarsi addirittura sensibile.
Ecco, forse è proprio questo che mi proietta sempre in avanti: la speranza; anzi, la coscienza, almeno per qualche occasione, di riuscire a sentirla vicina, con me, anche se questo avviene per motivi che non sono ancora riuscito a capire. Ho cercato di provocarla, qualche volta, darle della sfinge, oppure della falsa persona enigmatica, ma non ho ottenuto mai alcun risultato, come se questi fossero argomenti senza importanza. Certe volte mi sono sfogato con gli amici di sempre, al caffè, e loro hanno detto tante volte che devo ribellarmi, che non è il caso di continuare così.
Ma io vado avanti, e anche ieri sono uscito di corsa per riuscire ad incontrarla lungo il tratto di strada vicino casa sua. Passo da lì quasi per caso, la riconosco, la saluto, mi offro di accompagnarla. Lei mi sorride, mi saluta, lascia che le parli di qualcosa senza interrompermi, guardando avanti a sé, mentre cammina. Quando arriviamo, lei mi osserva un momento, mi lascia un attimo di tempo, giusto per dirle che mi piacerebbe passare la serata con lei, ma risponde subito no, poi mi saluta e rientra, in quell’appartamento dove abita con la sua madre anziana.
Qualche volta le ho chiesto se potevo telefonarle, ma lei ha sempre detto sottovoce che era meglio evitarlo. Così anch’io torno a casa, camminando lentamente con la testa sempre piena di nuovi pensieri, mi fermo al caffè a salutare qualcuno, lascio che scherzino, che dicano qualcosa per prendermi in giro, poi arrivo al mio appartamento e di nuovo sento di essere lì, immobile, senza alcuna differente possibilità. Mi dispero, qualche volta, senza neppure sapere bene il perché, ma quasi sempre sono contento almeno di averla veduta, di essere riuscito a parlarle. Sono sicuro che le cose dovranno cambiare, ne sono convinto: è soltanto una questione di tempo, e infine la mia costanza vedrà sicuramente una variazione importante.

Bruno Magnolfi

Un oggetto qualsiasi.

Dopo essere rimasto in piedi, fermo per diversi minuti, era andato quasi di malavoglia a sedersi sulla sua poltroncina preferita, sistemandosi con calma e stendendo gli avambracci sopra i braccioli, facendosi immobile, come alla ricerca di un pensiero che riuscisse ad occupargli la mente. Infine era dovuto tornare, poco dopo, ad alzarsi di nuovo, senza un vero motivo, forse solo per appoggiare una spalla alla parete comune del salottino e della cucina, dentro al suo appartamento, proprio soltanto per restarsene lì, quasi paralizzato, come incapace di qualsiasi altra cosa. Avrebbe potuto accendere la radio, perdersi nell’ascolto di qualche programma musicale, oppure, sintonizzandosi su un’altra stazione, apprendere le ultime notizie della cronaca o della politica; ma gli pareva perfettamente adeguato quel silenzio, quella pacatezza completa, e così cercava di starsene immobile ancora quanto gli era possibile, quanto riusciva a resistere, non fosse altro almeno che per quei pochi minuti, i quali, per qualche motivo sconosciuto al momento, gli apparivano così fondamentali.
Non c’era niente che potesse fare in concreto, lo sapeva, ne era cosciente, questo era il punto: niente che desse dimostrazione del suo sentirsi vivo, utile in qualche maniera, capace di elaborare soluzioni. Cercava di ricordare qualcosa, qualcosa che gli desse la spinta utile alle sue necessità del momento, ma all’improvviso gli pareva proprio che niente di particolarmente importante, degno di essere conservato nella memoria, fosse mai semplicemente accaduto in tutta la sua lunga esistenza.
Lentamente, quasi senza rendersene conto, era scivolato in cucina, si era versato un bicchiere colmo d’acqua, e aveva iniziato a berne dei piccoli sorsi, pur senza aver sete. Qualcosa dovrà pur succedere, aveva pensato, non può continuare tutto così, all’infinito. Gli pareva che nulla potesse intervenire davvero ad interrompere quel senso profondo di niente che lo stava trascinando verso la mancanza totale di qualsiasi entusiasmo, eppure sentiva ancora dentro di sé la forza per ribellarsi a quel vuoto che continuava a circondarlo, e a renderlo prigioniero, anche se non riusciva a immaginare la maniera per ribellarsi.
Qualcuno aveva improvvisamente suonato alla porta, come per dare una sciabolata a quei pensieri così inconcludenti, e lui si era spostato, quasi per una reazione spontanea, verso l’ingresso del suo appartamento: aveva socchiuso il battente, senza gran convinzione, ed aveva osservato con interesse la persona che si era trovato davanti, lasciando con gentilezza, pur senza conoscerla, che la ragazza che aveva di fronte gli dicesse buongiorno, senza ombra di falsità, nella cornice di un largo sorriso. L’aveva fatta subito accomodare, in fondo non aveva niente da perdere, e per parlare meglio si erano spostati nel salottino, erano andati a sedersi, quasi una di fronte a quell’altro, e lei aveva iniziato a dire qualcosa, quello che probabilmente le stava più a cuore.
Avevano discusso pacatamente, per un certo tempo, su alcuni argomenti generali, lei aveva subito insistito su temi che a lui risultavano abbastanza familiari, fino a quando gli aveva mostrato il contratto con il quale, firmandolo, lui si sarebbe impegnato ad acquistare una serie di grafiche d’autore delle quali gli stava mostrando delle semplici raffigurazioni, materiali originali firmati e numerati, autentici, opere assolutamente di pregio. In fondo non era difficile dire di si, che tutto andava bene, mostrarsi contento di quella opportunità che gli veniva offerta addirittura in casa sua. Anche se non aveva scelto lui tutto quanto, se non era andato a cercare niente di ciò che adesso gli veniva proposto, eppure ogni cosa appariva perfetta, non trovava niente su cui recriminare.
Infine le cose si erano sistemate, lei era uscita dalla porta con il medesimo sorriso con cui era entrata, e lui si era sentito migliore, capace ancora di valutare positivamente le proprie esperienze. Quando ormai, rimasto solo, era tornato a sedersi sulla sua poltroncina, si era sentito improvvisamente sicuro di avere acquisito qualcosa che non osava neppure sperare: era contento di quella opportunità a cui aveva aderito con entusiasmo, e poi la ragazza gli aveva lasciato, forse senza volerlo, inconsciamente con ogni probabilità, quasi per lasciargli un segno di sé, la penna con cui aveva annotato i suoi dati e con la quale lui aveva firmato quei fogli: un oggetto da poco prezzo, senz’altro, ma per lui, in quel momento, di uno strano, particolare, inestimabile valore.

Bruno Magnolfi

#8 – vittorio

Che resti tra noi.
La nebbia di novembre mi fa sentire bene.

Esco a piedi, che la patente me l’hanno ritirata tre mesi fa. Ma è meglio così, non m’interessa averla indietro, la patente. Passeggio nella nebbia fino al Sandy, è chiuso solo il martedì. Dicono che la pianura fa schifo, che novembre fa schifo, che la provincia di Reggio fa schifo che il Sandy è uno schifo di bar. Io dico che al Sandy c’è sempre qualcuno che ti saluta.

C’è Robertobaggio che viene tutte le sere, tranne che nel weekend: lo chiamano così da quella volta che ha raccontato di tutte le stradine che si fa ogni notte per dribblare gli sbirri quando esce ubriaco dal Sandy. Lo chiamano tutti Robertobaggio e anche se è un nome lungo nessuno lo abbrevia, secondo me perché suona proprio bene, così, in tutta la sua lunghezza. La moglie di Robertobaggio lavora a Milano, in una multinazionale, dev’essere una specie di manager di una casa farmaceutica, e torna a Reggio il sabato: per questo lui non c’è mai al bar nel weekend.

Al Sandy la birra è buona, la spillano bene, lasciano lo strato giusto di schiuma e costa quanto dovrebbe costare una birra. Poi alla terza media ti regalano un gadget della Warsteiner. Il record è di Sergino: cinque gadget della Warsteiner in una sola sera, per colpa della suocera che era morta il giorno prima. Al terzo gadget era un fiume di lacrime, piangeva, beveva e brindava alla memoria della povera vecchia senza smettere di piangere. Il record precedente era sempre di Sergino: quattro gadget perché diceva che per poco non divorziava con la moglie per colpa della vecchia succhiapalle della suocera. La chiamava così: vecchia succhiapalle. Ma la verità era che le voleva bene.
L’altro ieri è venuto al Sandy un gruppo di ragazzini. Avranno avuto sedici o diciassette anni e si sbronzati come disperati. Quella sera ho bevuto solo una rossa: mi capita che bevo poco quando penso intensamente. Pensavo ai ragazzini, cioè pensavo a come i ragazzini potevano vederci. Alla fine della rossa ho smesso di girarci intorno: ci vedono sicuramente come dei falliti. Per loro Jimmy è un fallito, perché è sbronzo e continua a sistemarsi il cappellino della Juventus e ha più di cinquant’anni e brinda con loro che sono solo dei ragazzini che lo prendono per il culo. Per me Jimmy ha trentotto anni, anche se ne dimostra più di una cinquantina. Per me Jimmy stava per andare a vivere a Roma, con la sua donna, dieci anni fa’, aveva messo da parte un gruzzoletto ma poi sua madre è caduta mentre era al mercato, una caduta del cazzo, però dev’essersi schiacciata qualche vena o qualcosa del genere. Mesi di ospedale e niente da fare: sua madre può alzarsi dal letto solo un paio d’ore al giorno, e deve farlo per forza altrimenti le caviglie le si gonfiano come due gommoni. Jimmy ha deciso di non lasciare la madre, la sua donna ha deciso di lasciare lui. Adesso lavora quattro ore nella macelleria di un supermercato, il pomeriggio sta con sua madre, la sera viene qua e beve. Penso che non riesca a prendere sonno se non è sbronzo.

Forse siamo dei falliti – hanno ragione i ragazzini – però c’è tutto un groviglio di scelte inerzia e caso e destino che non ha niente a che fare coi ragazzini. Loro giocano col computer e quando perdi basta che spegni e riaccendi.

Erano in undici: come una squadra di calcio. Mi sono immaginato una sfida: gli undici ragazzini del Pischellos Drinking Team, contro di noi la Gloriosa Compagine dei Falliti del Sandy. In porta abbiamo Enzo, che è un bel po’ alto e che d’inverno non si toglie mai i guanti; dice che gli da fastidio il freddo del bicchiere perché ha le estremità sensibili. Giochiamo con quattro uomini in difesa, senza sbilanciarci troppo: siamo una squadra di provincia. In mezzo schieriamo i fratelli Mangone, rissosi, di quelli che non tolgono mai il piede se c’è un contrasto. Sulle fasce servono cuore e polmoni, quella è gente che deve correre per tutto il campo; così sulla destra noi abbiamo Sergino, che lo conoscete già, e a sinistra il Pinetti, che fa il giardiniere e ha due polmoni che potrebbero fare da impianto di ventilazione per una palazzina: quando beve non smette mai di parlare; qui tutti si ricordano la sua tirata sull’azoto e su come entra nei terreni e poi nell’acqua e nell’aria e di come gli alberi subiscono il pallosissimo ciclo dell’azoto come dimostrava qualche sua assurda scoperta su certe maledette cortecce d’acero. Il Pinetti ha cinque figli con tre mogli diverse, dice di odiare i negri perché ci rubano il lavoro, ci portano la tubercolosi e tutte quelle palle lì; in realtà mi hanno detto che lavora con un senegalese con le treccine – certo fa il burbero il Pinetti – ma gli spiega tutto alla perfezione al senegalese, come fosse il figlio che deve rilevare la sua attività: cuore e polmoni, perfetto per la fascia.

A centrocampo invece serve un’amalgama di muscoli e cervello. Il cervello ce lo mette il ragionier Tortorella: è in pensione, è uno di quelli che inizia a bere presto e va a letto presto, beve solo Vecchia Romagna, è uno affidabile. Per i muscoli abbiamo il Pierpa, il tipico ciccione che però corre anche, quello a cui piace fare le battute e magari tu gli dai una pacca sulle spalle e magari pure tu sei ubriaco e magari gliela tiri un po’ più forte questa pacca e quello, ecco, subito cambia espressione, e si mette in faccia l’espressione del toro che si sente preso per il culo.

Sulle ali ci serve il bel gioco, serve gente che ha i numeri. E il Sancio di numeri ne ha da vendere. Centodieci e lode alla laurea, quella di tre anni, centodieci e lode alla laurea specialistica, concorso per l’insegnamento passato al primo colpo. Il posto l’ha trovato subito anche se tutti dicevano che era impossibile perché siamo nella merda, e invece lui l’ha trovato, e un posto fisso per di più, a tempo indeterminato, professore di scienze alla scuola media, una scuola privata qui a una ventina di chilometri. Poi al quarto mese di lavoro un ragazzino disegna un pisello su un foglio di carta e glielo attacca alla schiena. Lui se ne accorge dopo mezz’ora, deve fare una sfuriata a tutta la classe, deve dire che non sarebbe uscito nessuno finché il colpevole non avesse confessato, deve intimorire, farsi rispettare, crede nella forza del carisma, bastone e carota, deve cercare di urlare ma senza perdere il controllo, deve fare tutto questo ma poi sta per iniziare a urlare e gli si rompe la voce, la gola è una palude di saliva – cazzo davanti a dei ragazzini brufolosi! – sente un torrente incontenibile che prorompe da qualche parte nello stomaco, e scoppia a piangere, una specie di crisi isterica, come se non piangesse dai tempi del liceo, e forse era davvero così. La classe scoppia a ridere, lui punta la porta, vuole andare in bagno, rovescia il registro. Da quel giorno non è più andato a scuola, è andato dal medico che è un suo amico e gli ha fatto un certificato che dice che è malato e ha bisogno di riposo per qualche mese, la scuola ha capito tutto e ha smesso di pagarlo, lui non ha detto niente; qui al Sandy è quello che ha provato tutti gli amari, non puoi mai sapere cosa prenderà: è quella curiosità di chi ha studiato.

La nostra ala sinistra è Luchino, uno di quei coglioni che dice che a destra non ci sta mai. Una sera ha detto che si fa anche le seghe con la sinistra, e sembrava serio. Luchino è il più giovane della squadra, venticinque anni. Venticinque anni ed è già a marcire al Sandy, direbbero i ragazzini del Pischellos Drinking Team. Io sono convinto che sia speciale, sapete, una di quelle persone che hanno quella specie di scintilla in fondo agli occhi, che magari parlano delle solite stronzate di cui parlano tutti, eppure quando tornate a casa vi ricordate solo di quello che dicevano loro, gli scintillanti. Luchino beve coi soldi dei suoi genitori, gli piace il cognac, ai suoi fa credere di andare ancora all’università, gli dice che fa la specialistica. Per la triennale che non ha mai fatto ha organizzato addirittura una finta festa di laurea per i parenti. È questo il problema degli scintillanti: sono speciali anche quando fanno le boiate. E poi secondo me hanno tutti il demonio dell’autodistruzione nascosto in qualche piega dell’anima. Quando si accorgono del maledetto demonio è finita, ci si affezionano con tutte le loro forze. E tutta ‘sta cosa i ragazzini mica la possono capire, loro le pieghe nell’anima non ce le hanno ancora. Luchino suona il contrabbasso, ogni tanto lo porta anche al Sandy: qui tutti si ricordano ancora un epico concerto insieme ai due fratelli Mangone che suonavano due trombe che chissà dove avevano trovato. Comunque Luchino il contrabbasso lo suona da dio. I suoi sono ricchi, sono i becchini del paese e hanno una sede anche a Reggio. Ma lui il becchino col cazzo che lo fa – ci dice sempre – però neanche studia un cazzo e si beve i soldi dei suoi – gli diciamo noi – e quando gli hanno proposto di suonare due volte a settimana in un locale di Bologna lui ha detto che col cazzo che si fa tutta quella strada per fare da spalla a qualche finto jazzista fallito della Romagna. E quelli l’avrebbero pagato per suonare. Luchino è il tipico giocatore che se gioca bene lui vinci la partita e se gioca male rompe incredibilmente le palle a tutta la squadra; ma io lo schiererei comunque a occhi chiusi, gli serve fiducia. Poi davanti c’è Robertobaggio, quello delle stradine: lo schiero trequartista dietro l’unica punta dell’Antica Compagine Falliti del Sandy, che sono io.

Io sono il tipico attaccante che il golletto te lo butta sempre dentro, il tipico attaccante che nelle grandi occasioni fa sempre schifo.

Che resti tra noi, è per questo che gioco in una squadretta di provincia. E so che per una squadra così sono perfetto. E mi piace anche, come mi piace la nebbia che rende gialle le luci delle macchine sulla strada e l’odore di viscera del Sandy. Solo che avrei avuto le potenzialità per fare il grande salto. Che poi i ragazzini penseranno che ognuno di noi Falliti dice di sé la stessa cosa.

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#7 – luisa

Che resti tra noi.
Dopo i venti sei una puttana.

Non mi permetterei mai di giudicare la vita delle altre persone. Però, insomma, dopo i venti sei una troia. Significa che dalla tua lontana, memorabile prima volta, ne hai fatte seguire altre diciannove. E non venite a raccontarmi le solite storielle che però dipende, nelle situazioni bisogna esserci etc etc etc… perché sono tutte cazzate. Sono tutte parole e le parole sono delle gran civettuole, come diceva la nonna Adolfina, scaricata dal nonno dopo quarant’anni di matrimonio con uno scarno pezzo di carta macchiato di caffè riportante: ”Le felicità danzano in cerchio, al bordo di una finestra”. Da quel giorno, passa la sua vita davanti alla finestra: è convinta che prima o poi le parlerà e che le regalerà l’illusione di non essere stata realmente lasciata sola, a pochi passi dall’arrivo.

Insomma, le parole non vanno ascoltate. Sono donnette pronte a farsi palpeggiare sotto la gonna dalle mani dell’oratore più abile. La notte ti fanno sognare e la mattina ti accorgi che di loro non è rimasta traccia, se non qualche piega sul cuscino. Ti fanno bere di tutto, con la scusa del tono, dell’accento, del paraverbale, della mimica, della semiotica, della prossemica, della retorica, della direzione, del codice, del mezzo e del contesto. E se le fraintendi, lo stupido sei tu, che non hai avuto la sensibilità di comprendere tutti gli inutili riflessi del loro romanticismo. Prendete i numeri, invece. Di loro si che ci si può fidare. Non hanno nulla da nascondere, sono sinceri, asettici, professionisti, rappresentano ciò che dicono di rappresentare. Vendono ciò che hanno dichiarato di vendere davanti al portone di casa. Semplicemente affidabili. Così, sei certa che due più due farà quattro anche domani e che di notte o di giorno, sotto un lampione o alla seducente luce di una candela, 19 piselli saranno sempre e comunque tanti. Esageratamente tanti. Troppi, a meno che tu non sia una puttana.

Io, per esempio, sono arrivata a dieci. Secondo me, per avere ventiquattro anni, è un buon numero. Dà al tuo sguardo la giusta sfumatura di malizia, senza appesantirla con i toni volgari tipici di chi, invece, ha già raggiunto il traguardo dei venti, appunto. E poi troppa esperienza agli uomini non piace. Impazziscono per le espressioni da cerbiatta impaurita, per le mani esitanti, impazziscono per la pelle incerta, per i vestiti che non si vogliono scollare dalle forme belle e insicure. Impazziscono per la lingua sincera e agitata. Così, ogni volta, lo faccio: fingo d’interrompere il viaggio delle loro dita curiose, per vedere nel loro sguardo un istinto animale che la sicurezza dell’esperienza non ha il potere di accendere.

L’ultima volta, però, no. E’ stata una cosa rapida, avevo fretta; il nove mi ha sempre portato sfiga e non vedevo l’ora di riempire la decima posizione della mia lista. L’ho sentito parlare al telefono con la sua ragazza nel cortile dell’università; l’avevo già beccato più volte a mostrare un certo interesse per il bottoncino difettato della mia camicia. Lei lo ha chiamato per augurargli buon esame. Lui, di tutta risposta, ha accettato il mio invito ad un pomeriggio di ripasso intensivo a casa mia. Per il resto, nulla di nuovo. All’inizio ha avuto delle difficoltà di prestazione; mi sono già trovata a trattare col fidanzato pentito tutto amore e lealtà che all’ultimo secondo vuole tirarsi indietro. L’insistenza in questi casi è letale. Così, mi sono avvicinata appoggiandogli dolcemente una mano sulla spalla, l’ho guardato con un misto di tenerezza e di comprensione e gli ho sussurrato..”Dimmi, ti capita spesso? ” Qualche minuto dopo, la decima posizione poteva dirsi occupata. Lui aveva dimostrato la sua virilità, io avevo dimostrato la sua stupidità. Mi fa star bene ritrovarla ogni volta, quella stupidità. Vederla evaporare dal loro sudore, ritrovarla nell’imbarazzo che colora i loro volti a gioco concluso; nella gentilezza goffa che usano per dirmi che una seconda volta non ci sarà. E non giudicatemi, tutti hanno le loro manie: c’è chi stira le mutande, chi stacca le ali alle mosche, chi prega, chi si gratta via le croste delle ferite prima che sia il momento opportuno…io, rifletto. Non nel senso di meditare, ma nel senso di riflettere, come fanno gli specchi. Li metto davanti alla loro parte più marcia, quella che rinnegano. Li faccio scivolare negli strati più viscidi e melmosi del loro io. Inciampano con inerzia in loro stessi. E quando sbattono violentemente la testa contro la loro profondità, iniziano a sanguinare. Ma invece di disinfettarla, la ferita, la coprono con un cerotto fatto di parole: mentre si rivestono, li sento sfornare i loro è meglio che finisca qui, abbiamo fatto una cazzata, scusa ma tutto questo casino mi ha fatto capire che la amo, cioè, è la mia ragazza da una vita, mi dispiace, non sentirti usata… Usata? Io?

Vedete, la mia non è una qualche forma di perversione sessuale. È una nobile ricerca dell’amore. Tutto ciò che i loro occhi trasmettono mi racconta ciò che l’amore non è.

Me la ricordo ancora la nonna Adolfina quando, incollata ai bordi della finestra, con il bigliettino del nonno accartocciato quanto le sue mani, mi disse: “ Luisa, che resti tra noi, non che io dia peso alle parole ma… secondo te, queste felicità in cerchio… danzano meglio di me?”

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#6 – corrado

Che resti tra noi.
Penso di essere il migliore suonatore di sax vivente, al giorno d’oggi.

Certo, forse buttata lì così è un po’ esagerata. Diciamo che sono presumibilmente il migliore suonatore di sax vivente al giorno d’oggi.
Qui non stiamo parlando di tecnica. Si tratta di esperienze di vita. Si tratta di soffiare la vita dentro la fessura del beccuccio del sax: la musica è una conseguenza naturale. Le dita si allenano, ma se non hai vita non hai fiato da spingere dentro lo strumento: questo punto è fondamentale.
Per questo ringrazio i miei genitori di non avermi forzato a suonare da piccolo. Magari sarei diventato uno di quei bambini prodigio, come le bambine cinesi che vengono obbligate a fare ginnastica tutti i giorni da quando hanno 2 anni e poi vincono le olimpiadi a 15 anni, vengono dimenticate a 23 e a 30 sono imbottite di antidepressivi, coi loro culi ingrassati incollati a qualche divano del nord della Cina.

Io ho iniziato a suonare il sax dopo il primo divorzio.
Una cosa consensuale, senza drammi: Sofia aveva dieci anni più di me e prima o poi si sarebbero fatti sentire; ecco era semplicemente arrivato quel momento. Nello studio dell’avvocato c’era un poster di John Coltrane. Il giorno dopo ho comprato un suo vinile: Giant Steps, del 1960; in copertina c’è John intento a soffiare con tutta la sua forza dentro al sax. L’ho ascoltato per l’intera giornata: ai tempi facevo l’agente immobiliare e – credetemi – mi sono scordato totalmente di presentarmi al lavoro.
Dopo una settimana decisi che avrei suonato anch’io il sax.
Comprai tutti i dischi di Coltrane che riuscii a trovare – alcuni me li feci spedire dall’estero – e li consumai a furia di farci scorrere sopra la puntina del giradischi.
In quei mesi conobbi Annalisa, era più giovane di me di cinque anni; amava viaggiare ed era anche più ricca di me, e la cosa ai tempi mi mise in imbarazzo: ora semplicemente ne riderei. In fondo non me la passavo economicamente male neanche io, ero un giovane divorziato senza figli. Annalisa non imparò mai a cucinare, fu il suo unico vero difetto.

Ci fidanzammo dopo la prima uscita. Non potevamo sposarci in chiesa a causa del mio divorzio, ma la cosa non le fece né caldo né freddo. Ci sposammo in comune, senza strascico bianco, senza chicchi inutili di riso, senza famiglie piangenti: i miei erano già morti e i suoi dicevano di non dare peso a queste cose, un po’ perché erano marxisti, un po’ perché erano affascinati da Woodstock e da tutti quei figli dei fiori.
Le ho chiesto di sposarmi nel modo più comune del mondo, al tavolo di un ristorante, con l’anello e tutto il resto. Ci amavamo, la banalità non ci faceva paura.
La mattina dopo la mia dichiarazione trovai il suo posto vuoto nel letto; tornò due ore dopo, con una custodia nera infiocchettata alla meglio in un nastro rosso: mi aveva comprato un sax. Ho iniziato a passare intere mezz’ore a lucidarlo: lo lucidavo e mi guardavo allo specchio, il beccuccio stretto tra le labbra, inclinando il collo un po’ all’indietro e un po’ a destra, che poi allo specchio sembra a sinistra.

Per il viaggio di nozze volammo a New York. Era la prima volta che prendevo un aereo, penso di averle stritolato una mano durante il decollo. Noleggiammo una macchina per scendere lungo la East Coast: Philadelphia, Washington, Atlanta, Macon, Jacksonville, poi finalmente New Orleans.
A New Orleans passavamo le notti nei jazz club, ci dimenticavamo persino di fare l’amore. Sentii per la prima volta il suono del sax dal vivo, iniziai a fumare e mi vergognai per la prima volta della mia pelle bianca. Una mattina mi cosparsi di fondo-tinta scuro: Annalisa era in doccia e quando uscì io ero a due passi dalla porta del bagno, completamente marrone, ad eccezione di un sorrisone bianco e del triangolo bianco delle mutande; rise così tanto che facemmo l’amore dopo tre quarti d’ora.

Tornai dal viaggio di nozze con il minuscolo feto di mio figlio nella pancia atletica di mia moglie e con una voglia incontenibile di prendere le mie prime lezioni di sax.
Avevo deciso che non avrei mai soffiato dentro al beccuccio se prima non fossi stato in grado di produrre qualcosa di almeno decente: certo, anche Coltrane deve avere pur iniziato in un qualche modo scoordinato, ma sicuramente non soffiando del tutto a caso.
Annalisa scoprì di essere incinta un mese e mezzo dopo il nostro ritorno dagli USA: nella regolarità infallibile del suo ciclo mestruale tre settimane e mezzo di ritardo erano più che un indizio. Comprammo il test di gravidanza, che ai tempi assomigliava molto al kit del piccolo chimico. L’esito era positivo: nel senso che aspettavamo un figlio.
Promisi a me stesso che quando sarebbe nato mio figlio avrei smesso di fumare e avrei iniziato davvero con le lezioni di sax.

Fu al quarto mese che Annalisa abortì. Un aborto spontaneo. Il ginecologo disse che era più propriamente un aborto interno: l’embrione era nell’utero di sua madre, con la cervice perfettamente chiusa e tutto il resto, ma il cuore non funzionava, niente battito cardiaco. Una cosa abbastanza comune.

Iniziammo a fare l’amore sempre meno frequentemente, stavamo invecchiando. Iniziammo anche a viaggiare molto. Quando cadde il muro di Berlino eravamo lì, a pochi passi, infreddoliti dalla notte passata in macchina. Il muro si sbriciolava, era tutto semplice. Non si capiva come avesse fatto a rimanere in piedi per tutta quell’assurdità di tempo. Veniva giù rapidamente, con i tonfi più innocui del mondo. Forse fu il giorno più felice della mia vita. Desiderai mia moglie con un’intensità che non avevo mai provato. Era ancora bella. Piangemmo insieme per la Germania unita. Per il nostro figlio mai nato.
Mentre cadeva il muro ci scrollavamo di dosso tutta la polvere che iniziava a soffocare le nostre vite. Ti accorgi che stai morendo solo quando rinasci per caso.
Tornammo a casa con due ragazzi di Torino che avevano una quindicina d’anni meno di noi e avevano bisogno di un passaggio. Parlai di John Coltrane per tutto il viaggio: era bello essere preso per il culo da mia moglie e dai due ragazzi per la mia fissazione.

La settimana dopo iniziai con le lezioni di sax. Finalmente avevo abbastanza vita da soffiare in quel beccuccio che lucidavo tutti i giorni.
Il maestro era più giovane di me: mi fece iniziare col solfeggio; e tutto sommato il solfeggio non mi dispiaceva, ero abbastanza maturo per accettarne la necessità. Anzi, la noia dell’esercizio aveva un certo sapore familiare.

Un mese di solfeggio. Poi basta. Basta sax.

E’ stato come la fine di un amore. Per un po’ ho continuato a lucidarlo, a solfeggiare, a guardarmi allo specchio fingendo di suonare, a comprare metodi, dischi di John Coltrane, biografie di John Coltrane. Finì come i grandi amori: una lenta agonia.

Feci un corso di fotografia. Comprai una Canon. Poi una buona gamma di obiettivi. Uno zaino per tutto quell’armamentario. Un cavalletto. Due o tre tipi di flash.
Ho vinto diversi concorsi di fotografia, ho esposto le mie foto in una dozzina di mostre in giro per l’Italia, poi ho iniziato coi reportage. Il primo è stato in Vietnam, Laos e Cambogia: due mesi pagato dalla National Geographic Italia; Annalisa mi ha comprato un telefono satellitare, e io ho anche smesso di fumare dopo una settimana.
Gli anni seguenti sono stato in Algeria, Alaska e Perù. Oramai riuscivo a mantenermi solo con la fotografia. Annalisa è andata in pensione e ha iniziato ad accompagnarmi. Turchia, India del nord, Pakistan, abbiamo seguito un gruppo di escursionisti nel deserto del Gobi, poi un gruppo di giornalisti nella Russia caucasica. Io scattavo, Annalisa mi aiutava a riconoscere gli scatti migliori e ad entrare in contatto con le popolazioni locali: io non avevo mai imparato né l’inglese né il francese. Siamo tornati anche a New Orleans per un servizio sul jazz. Il mio vecchio amore tornava a bussare per caso alla mia porta, e io lo accoglievo come un vecchio amico. Ho fotografato decine di sassofonisti, sorridendo al passato.
Annalisa era felice a New Orleans. Una sera ha raccontato ad un ragazzo che suonava il contrabbasso di quando ero diventato tutto nero, tranne i denti e il triangolo delle mutande; il ragazzo mi ha chiesto se mi ero passato il fondo-tinta anche sulle piante dei piedi. Abbiamo riso come degli ossessi.

Mia moglie è morta tre anni fa. Saremmo dovuti partire per l’Indonesia. L’ho trovata con la testa abbandonata sull’asse da stiro, sembrava essersi addormentata. Un ictus.
Ho venduto la nostra casa e ho comprato un appartamento più piccolo in una zona tranquilla.
Ho ritrovato il sax. Ho ritrovato quel vecchio amore: c’era ancora il fuoco sotto la cenere degli anni. Ho perso qualche preziosa diottria a guardare decine di dvd del vecchio Coltrane.

Ho vissuto per molto tempo nell’oscurità perché mi accontentavo di suonare quello che ci si aspettava da me, senza cercare di aggiungerci qualcosa di mio…questo l’ha detto Coltrane, nel 1962. Io quell’errore non l’avevo fatto. Il beccuccio del mio sax l’avevo solo lucidato, non ci avevo mai soffiato dentro niente. Niente d’imposto, niente di stonato.

Ho portato il sax qui con me in ospedale, perché ora sono pronto. Ho un tumore al fegato, ma non m’importa: sono vecchio, mia moglie è morta.
Il punto è che so che mi resta poco, che sto per morire. E questa consapevolezza è un dono immenso. Adesso ho tutta la mia vita da soffiare nella fessura. Ho tutto il dolore del mondo. Il dolore che non ha nessuna immagine contro cui scagliarsi, per provare a distrarsi un po’, nessuna parola a cui non credere.

Che resti tra noi. Quando si è vecchi i tumori avanzano lentamente, come tutto il resto. Ho tutto quello che mi serve: sarò il migliore suonatore di sax vivente, al giorno d’oggi.

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