Categoria: recensione

Asfalto (di Angelo Stefani)

In una Roma esoterica una bambina scompare misteriosamente.
Gerardo, un clochard che vive nei giardini della Domus Aurea, troverà lo zainetto della piccola Sofia, e in quel momento capirà che la vita gli sta offrendo un’altra opportunità per salvare se stesso.
Una verità agghiacciante, raccontata attraverso le pagine di un album da disegno, porterà sulle tracce di un’antica setta satanica le cui radici si snodano all’interno delle mura vaticane, fino a coinvolgere cariche importanti della politica capitolina.

Numero pagine: 60
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ESTRATTO:
«Dove stiamo andando papà?» disse la piccola Sofia.
«Oggi non andrai a scuola».
Sofia non sorrideva più, e i suoi occhi in un istante persero tutta la lucentezza che dovrebbero avere quelli di una bambina di sette anni.
«Non devi preoccuparti, papà ti riporterà a casa, come ogni volta».
L’uomo teneva per mano la figlia, che camminava accanto a lui nel Viale Della Domus Aurea, addentrandosi nel Parco di Traiano. Alle loro spalle c’era il Colosseo, imponente traccia del glorioso passato della città eterna, ormai ripercorribile soltanto sui libri di storia. In sottofondo il rumore del traffico, sgradevole contrasto con il verde del parco nel cuore di Colle Oppio.
Fermandosi davanti a una panchina, il padre guardò la figlia attraverso gli occhiali da sole neri e le disse «Siediti e aspettami qui».
Poi fece un cenno con la testa, rivolgendosi all’uomo che li osservava da lontano fumando una sigaretta appoggiato a un cipresso, i capelli rossi come la ruggine e il volto bianco come se non avesse più nemmeno una goccia di sangue nelle vene.
Quello gettò a terra il mozzicone ancora acceso e poi si avvicinò a loro due zoppicando, aiutandosi con un bastone di legno intarsiato, l’impugnatura dorata come il vistoso anello all’anulare della mano destra.
Appena lo vide, la bambina si mise a correre nella direzione opposta, provando a scappare, ma in un attimo il padre la raggiunse e la afferrò, strattonandola.
Lo zainetto rosa le scivolò dalle spalle, cadendo a terra.
L’uomo diede uno schiaffo alla figlia e la prese in braccio, poi diede un calcio allo zainetto facendolo rotolare dietro una siepe.

GLI UOMINI OMBRA

RECENSIONE di MARGHERITA HACK
al libro “GLI UOMINI OMBRA” di Carmelo Musumeci

E’ un libro sconvolgente, opera di chi in carcere è diventato un grande scrittore, che scrivendo riesce a sopportare quella morte al rallentatore che è il carcere a vita, l’ergastolo ostativo, il “fine pena mai”.
Sono racconti in parte veri, in parte romanzati, che rispecchiano la violenza di chi ha potere su i carcerati e l’ansia di libertà, di giustizia, l’amicizia profonda che si stabilisce fra compagni di pena.
Quando si legge di casi reali di giovani rei di aver partecipato a qualche manifestazione, o di aver reagito alla forza pubblica, che entrati in carcere in piena salute ne escono avvolti in un lenzuolo e con sul corpo i segni di pestaggi selvaggi, si vuol credere che si tratti di casi eccezionali, poi si pensa a quello che è successo durante il G8 a Genova e si comincia a dubitare. Il carcere che dovrebbe essere scuola di riabilitazione si rivela un centro di abbrutimento per i carcerieri e di annullamento della personalità dei carcerati a cui questi si ribellano con la violenza, carcerieri e carcerati egualmente vittime di un sistema degradante.
Leggendo questo libro ci si sente in colpa per avere avuto un’infanzia felice, una famiglia che ci ha protetto e aiutato a crescere e ci si domanda come saremmo stati se fossimo stati lasciati abbandonati a noi stessi, orfani o con genitori in carcere, o assenti, forse ognuno di noi avrebbe cominciato con qualche furtarello e poi sempre qualcosa di più grosso, fino a che, contro la nostra volontà, ci sarebbe scappato il morto e la galera.
Il bambino criminale – l’autobiografa della sua infanzia- diventa criminale per colpa di chi dovrebbe guidarlo nella vita; prima la nonna che lo incita a rubacchiare del cibo al mercato, mentre lei, chiacchierando distrae il venditore. Scoperto, si becca uno schiaffo dalla nonna- quante volte ti devo dire di non rubare- e poi a casa se ne becca un altro per essersi fatto scoprire, poi la maestra che lo sospende per dieci giorni per aver portato a scuola un gattino, poi, in seguito alla separazione dei suoi, il collegio, dove religiosi di poca carità cristiana incrudeliscono con punizioni sproporzionate per un bambino ansioso di affetto e di libertà. Questo tipo di educazione potrebbe costituire un manuale su “ Come ti costruisco un criminale”.
Gli uomini ombra, invisibili e dimenticati da tutti , morti viventi, perché irreali come le ombre, eppure capaci di forte amicizia e altruismo come i quattro rinchiusi nella stessa cella, Tiziano figlio di un boss diventato assassino per l’obbligo di vendicare l’assassinio del padre, Pietro che aveva ammazzato la moglie e l’amante, Giosuè che aveva ammazzato una decina di persone che volevano ammazzare lui, e Nicola che viveva nel ricordo della moglie che lo aspettava da otto anni e non riusciva mai a vederlo. Era l’unico che aveva ancora una ragione per vivere. Per lui, perché lo trasferiscano al nord dove sarebbe stato più facile vedere ogni tanto la moglie gli altri tre dopo un tentativo di fuga fallito sono pronti a sacrificarsi. Finalmente Nicola può incontrare la moglie e gli altri tre sono finalmente liberi, le loro anime hanno lasciato i loro corpi martoriati di botte.
Le carceri italiane scoppiano. Molti detenuti non hanno nemmeno una branda o un materasso e dormono sdraiati per terra. Questo succede oggi nella civilissima Trieste. Molti dei detenuti non hanno compiuto altro reato che quello inventato da un governo razzista: il reato di clandestinità; molti altri sono poveracci che se fossero stati difesi da un bravo avvocato e non da un poco coscienzioso avvocato d’ufficio sarebbero fuori. Tutti avrebbero diritto a poter svolgere un lavoro, a studiare, a fare sport, a ricostruirsi un surrogato di vita, in particolare agli ergastolani, a coloro a cui la società dice: Lasciate ogni speranza o voi che entrate.
Spesso mi viene in mente un fatto di cronaca di qualche anno fa: Roma, una stazione della metropolitana. Due donne, un’italiana e una romena litigano, per quelli che vengono definiti futili motivi, una precedenza e una spinta forse involontaria, un insulto alla romena che reagisce con un’ombrellata al volto dell’altra. Disgrazia volle che la punta dell’ombrello le si conficcasse nell’occhio e raggiungesse un punto particolarmente delicato del cervello da provocare la morte. Chiaramente un omicidio preterintenzionale. Ma la romena è stata condannata per omicidio premeditato. Evidentemente in previsione del futuro litigio in metropolitana si era armata di un ombrello.
Quanto si dovrà aspettare perché il carcere possa assolvere davvero la funzione rieducatrice? Come si può pensare che una pena così barbara come l’ergastolo ostativo, che non lascia nessuna speranza di un futuro, possa rieducare?
Mi auguro che questo libro, oltre ad essere un eccellente esempio di letteratura vissuta, serva a sensibilizzare tutti coloro che sono “cittadini rispettabili”, che spesso non per merito loro ma grazie a un po’ di fortuna non hanno mai conosciuto il carcere, alla necessità di abolire l’ergastolo, a non dividere la popolazione fra onesti- quelli fuori- e delinquenti-quelli dentro- Leggendo questo libro si impara quanta umanità può esserci anche “dentro”, forse più dentro che fuori.

Margherita Hack

Canto D’Inverno

Canto D’Inverno è una raccolta di poesie di 33 liriche. La particolarità del testo è la scelta della traduzione che rappresenta una variante d’autore più che una fonte indiretta, in quanto l’autrice stessa informa il lettore di questa scelta. Vivendo in una società sempre più globalizzata, non è più possibile essere egocentrici, ma aprirsi al mondo come unica possibilità di crescita. La voglia di scoprirsi attraverso immagini naturali e non è il filo conduttore di tutte le liriche, che parlano di momenti spesso sfuggenti a causa della vita frenetica. Un dissidio diventa un “Canto D’Inverno”, destinato a ritrovare una nuova serenità e, perché no, un po’ di se stessi.
Il testo è disponibile richiedendo una copia autografata all’autrice alla mail ilpiacerediscrivere@gmail.com

Helvete – scarica gratis il libro

Quanto segue è il primo capitolo di HELVETE, un libro “scaricabile” gratuitamente dal seguente linK http://viborriello.files.wordpress.com/2011/08/libro-helvete-_di-vincenzo-borriello_.pdf

Helvete è una parola norvegese, che vuol dire inferno. Due ragazzi, Marco e Francesca, fans dell’heavy metal, spariscono nel nulla senza lasciare traccia. Giuseppe, padre di Marco decide di non starsene con le mani in mano e indaga in prima persona per scoprire qual è stata la sorte di suo figlio e della sua amica, ma sarà una giornalista, Marica Guberti a risultare determinante nella soluzione del mistero. Storie di droga, satanismo, esoterismo e fatti di cronaca realmente accaduti s’intrecciano tra loro dando vita a un racconto dal finale inaspettato.

CAPITOLO 1

La mattina dell’1 luglio Bloody Metal magazine, una rivista che tratta di musica heavy metal, letta da giovani, ma anche da vecchi nostalgici metallari, era stranamente arrivato puntuale nelle edicole. Quella volta Bloody Metal non parlava solo di musica, com’era solito fare. Quel numero, il 559, con gli Iron Maiden in copertina che avevano rilasciato un’intervista per promuovere il loro ennesimo doppio cd live e l’immancabile DVD anch’esso dal vivo, in cui giuravano che era il miglior concerto mai registrato da loro, aveva sul retro copertina una foto. Non era la solita foto di una band, né tanto meno la pubblicità di un nuovo cd. Era la foto di un ragazzo, un adolescente dai capelli neri, lunghi. Aveva lo sguardo incazzato, tanto per sembrare più credibile come metallaro. Indossava una t shirt degli Impaled Nazarene , un giubbino di jeans con le maniche tagliate, ricoperto di toppe di gruppi musicali. Con la mano destra, indirizzata verso l’obiettivo della macchina fotografica, con aria fiera, faceva il gesto delle corna; un atteggiamento caro ai metallari. Sulla foto capeggiava una scritta: “ Marco De Biasi – scomparso. Chiunque avesse notizie si metta in contatto con le forze dell’ordine oppure con la redazione di Bloody Metal”. Ma chi era Marco? Di sicuro un lettore di quella rivista ed è per questo che Giuseppe, suo padre, milanese d’adozione, immigrato nel capoluogo lombardo dal profondo sud, venti anni prima, aveva chiesto al direttore di Bloody Metal di pubblicare quella foto, sperando che lo stesso Marco, vedendola su quel magazine che comprava tutti i mesi, si decidesse a dare sue notizie. Sarebbe bastata anche una semplice telefonata per acquietare l’animo in subbuglio dei suoi genitori. Marco sognava di comparire un giorno su Bloody Metal, ma non in tali circostanze; fantasticava di finire su quelle pagine patinate insieme alla sua band, i Vomit of God. Lo raccontava sempre al padre, quando lo accompagnava alle prove della sua band, in quel vecchio scantinato ammuffito con le pareti ingiallite dal fumo delle sigarette e umide per le infiltrazioni della pioggia. Non certo il posto ideale per tenere degli strumenti musicali. Era però di quanto meglio la band potesse permettersi visto il budget a disposizione. Marco era il chitarrista, ma era anche uno studente, e per la sua promozione aveva chiesto al papà una chitarra nuova, una Jackson, di colore nero, con i pick up humbucking , come quella che usano alcuni dei suoi chitarristi preferiti. Una di quelle chitarre che ti permette di suonare riff pesanti, in grado di abbattere i muri. La promozione di Marco non era così scontata, ma Giuseppe a sua insaputa aveva già comprato lo strumento, aspettava solo qualche giorno ancora prima di darlo a suo figlio. Marco è scomparso la sera del 6 giugno 2006, il 6/6/06, una data che probabilmente non ha nulla di particolare, se non fosse che è la data della scomparsa del ragazzo, ma a rifletterci un attimo su, quella data ricorda il numero della bestia, il 666. Six six six the number of the beast cantavano gli Iron Maiden, la band preferita da Marco, che quella sera non fu il solo a sparire. Da quello stesso giorno, si erano perse le tracce anche di Francesca Chiari, una ragazza di 16 anni, la stessa età di Marco, anche lei di Milano, anche lei studentessa e sua cara amica. Si erano conosciuti tra i banchi dell’asilo, all’epoca Francesca portava le treccine. Le guance perennemente rosse, lo sguardo vispo e sempre sorridente, allegra. La contemporanea scomparsa dei due ragazzi, aveva fatto pensare ad una fuga d’amore, ma era passato un mese dalla loro sparizione e ormai si pensava al peggio. Francesca era una fan dell’heavy metal, di quello estremo. Le piaceva il black, il death, nella sua stanza c’era un piccolo altare, un drappo nero con disegnato un pentacolo capovolto, e poi tante candele, anch’esse nere, bastoncini d’incenso e un paio di teschi. Francesca amava passeggiare nei cimiteri, di quelli monumentali. Le piaceva farsi fotografare in quei luoghi di lugubre pace. Su una parete della sua camera, capeggiava una foto che la ritraeva distesa sul freddo marmo di una tomba; la pelle pallida, indossa una lunga veste nera, gli occhi chiusi, l’avambraccio adagiato sul suo petto e fra le dita una rosa. L’altro braccio penzoloni, verso il suolo, poi ancora, una foto di Francesca accanto alla statua di un angelo con il volto devastato dal dolore e dalla pietà. Si! Lei amava passeggiare per i cimiteri, farlo di notte quando il silenzio era assoluto e la luce aveva cercato rifugio altrove. Non era la sola, condivideva questa passione con altri suoi amici. La stanza, era rimasta così come l’aveva lasciata Francesca, prima di sparire nel nulla, con i suoi cd musicali custoditi come reliquie. Giulia, sua madre, non approvava la passione e il modo di vestire di Francesca, sempre con abiti neri, borchie, catene, poi quell’altare… ma non dava poi tanto peso alla cosa. Credeva si trattasse solo una fase adolescenziale, qualcosa che sarebbe passato con il trascorrere degli anni. Una fase di ribellione che tutti gli adolescenti vivono, cosi pensava Giulia, che sognava sua figlia, tra qualche anno con una laurea, perché lei a scuola andava bene, la immaginava madre e soprattutto felice. Francesca non c’era più, non si sa dove fosse, non si sa perché fosse scappata, ammesso che di fuga si trattava, ma la speranza di Giulia, e di Giovanni, suo marito, era che Francesca fosse con Marco, che fossero fuggiti insieme e che prima o poi sarebbero ritornati. Dove fossero finiti, i due ragazzi non lo sapevano neanche i loro amici, con cui passavano gran parte del tempo libero, e con cui condividevano le loro passioni, come la musica, l’occultismo e una certa forma di satanismo infantile. Roberto De Rossi, detto Burzum, 20 anni, operaio di professione. Lo chiamavano così perché si vantava di aver appiccato il fuoco a una piccola chiesa di un paesino in provincia di Bergamo, Valsecca, poco più di 400 abitanti, proprio come aveva fatto anni addietro Varg Vikernes, più conosciuto come Count Grishnackh, mente della one man band Burzum . Varg, nel 1992 a Fortun, in Norvegia, vicino la ben più nota città di Bergen, diede fuoco alla Stavkirke di Fantoft, una chiesa del 1150. I genitori di Burzum (non l’originale che per uno scherzo del destino era stato battezzato con il nome di Kristian e che in seguito cambiò nome in Varg), avevano una casa lì e insieme alla sua famiglia ci passava le vacanze. La leggenda narra che in una calda notte d’estate, dopo una passeggiata nei boschi, che Roberto era solito fare, guidato da un non ben specificato demone, si trovò davanti una chiesa con annesso un piccolo cimitero. Giunto lì il demone, stando a quello che spesso raccontava Roberto ai suoi amici, gli disse di tornare la notte successiva con una tanica di benzina e dare fuoco alla chiesa. A dire il vero le cronache di allora non riportarono mai la notizia di una chiesa data alle fiamme nel paese di Valsecca e neanche i suoi amici gli credevano, quando raccontava questa storia che ingigantiva di volta in volta. Roberto era un simpatizzante del nazismo. Almeno così diceva, perché in verità lui non capiva nulla di queste cose. Non capiva di politica, non conosceva la storia perché a scuola era sempre stato una frana, aveva interrotto gli studi a 14 anni. Era solito usare i termini ebreo, negro, in modo dispregiativo. Era questa la sua concezione di nazismo. Le simpatie naziste non erano l’unico difetto di Roberto. Non aveva solo la passione per la musica metal, per l’occultismo; aveva altri due interessi: gli piacevano l’alcool e le droghe. Una passione, come le altre, condivisa con gli altri amici del gruppo, ma lui era quello che con alcool e droga ci andava giù più pesante. Poi c’era Mario Borlotti, un ragazzo di 19 anni che lavora come macellaio. La lunga chioma nera gli copriva perennemente il viso ed occultava una brutta cicatrice poco più su dell’occhio sinistro. Mario faceva parte della band di Marco, i Vomit of God, cantava, aveva una voce potentissima, gutturale. I suoi ami
ci dicevano che quando era al microfono sembrava di ascoltare Lucifero in persona. Anche lui era interessato al mondo dell’occulto, scriveva i testi per la sua band, parole crude, qualcuno potrebbe definirle blasfeme. Frasi come: “Hai un crocifisso tra le gambe per sembrare una santa, scopati pure il Signore, hai la mia benedizione” oppure “La mia anima stuprata grida vendetta, battezzato in acqua santa purificato nel fuoco dannato” Marco, invece, si occupava di scrivere la musica. Era lui a comporre i riff che poi uniti ai testi di Mario, sarebbero diventate le song che avrebbero costituito il futuro demo dei Vomit of God, il titolo era già stato scelto, “ In nomine Satanas” cosi come la copertina, disegnata dallo stesso Marco, in bianco e nero, nel pieno stile delle band di True black metal, di quelle provenienti dalla Norvegia, la patria di Burzum, i cui mari secoli addietro erano solcati dalle navi vichinghe, un popolo e una cultura che affascinavano molto Marco e gli altri ragazzi della comitiva, che spesso confondevano e mescolavano paganesimo nord europeo e satanismo. La copertina raffigurava un diavolo che divora il corpo senza vita di Gesù, in cima capeggiava, fiero e maestoso, il logo della band, quasi illeggibile: Vomito of God. Della comitiva fa parte anche Davide Badoin, detto Thor , appassionato di mitologia nordica, giochi di ruolo, libri fantasy. Avido divoratore delle opere letterarie di Tolkien al punto da chiamare il suo cane, un rottweiler di colore nero, grandissimo, Nazgul. Aveva una dedizione maniacale per una band in particolare, i Bathory di cui indossava sempre le T shirt. Con la sua band, gli Infernal Soul, proponeva numerose cover dei Bathory durante le esibizioni dal vivo davanti alle solite trenta persone che frequentavano i locali metal della zona di Milano e dintorni. Thor è un medium, o almeno cosi dice lui. Sì uno di quei tizi in grado di mettersi in contatto con gli spiriti, di parlare con l’aldilà, con l’oltretomba come ama definirlo qualcuno, sì oltretomba suona meglio, ci si potrebbe dare un nome del genere a una band, gli “Oltretomba”, suona da Satana, com’era solito dire Marco, in luogo di “suona da Dio” perché Marco odiava quel vocabolo, la parola Dio. La pronunciava solo se accompagnata da altre parole, come porco dio (che scriveva sempre rigorosamente in minuscolo) dio cane, dio bastardo. Davide organizzava spesso sedute spiritiche con gli altri ragazzi, in particolare Francesca era affascinata dai poteri di medium di Davide e avrebbe voluto anche lei imparare a contattare i morti. La morte la affascinava, la seduceva, così come l’occultismo. Per le sedute spiritiche dapprima erano soliti riunirsi nel garage della casa di Roberto Burzum, ma lì non potevano sballarsi liberamente, così in seguito individuarono un bosco appena fuori la città di Milano, un posto tranquillo e con l’atmosfera giusta per fare certe cose.

Il Segreto di Luca di Robertino Valentini

Questo libro racconta la storia di una famiglia che vive nel Salento degli anni ’60 e ‘70. È l’epoca del boom economico, in cui ogni novità tecnologica rappresenta la possibilità di un riscatto economico e sociale. Una bicicletta Saltafoss, un camion modello Leoncino, uno dei primi televisori a colori, una casa sempre tirata a lucido e una famiglia che viaggia sulla Millecento sono gli ingredienti dell’infanzia di Luca, rappresentante dell’ultima generazione cresciuta senza computer e telefonini. Il suo papà, Don Ciccio Pecoraro, è costantemente impegnato nella scalata al successo con il commercio di biancheria intima e con l’ideazione di piccole furbizie. La sua mamma, Santina, è sempre presa dalla gestione della casa e dei figli, oltre che dalla recita dei rosari e dalla cura delle apparenze. Luca ha due fratelli, Matteo e Marco. Il primo pratica sport, il secondo ama andare a catechismo. Entrambi si ricordano di Luca solamente quando hanno voglia di elargire rimproveri. Ciccio e Santina hanno dato ai figli i nomi dei primi tre Evangelisti, ma sono incapaci di soddisfare le loro richieste di comprensione e di amore, troppo presi dalle proprie ambizioni borghesi. Luca parla in prima persona della storia della sua famiglia con il linguaggio semplice e ironico tipico dei bambini. E’ un bambino apparentemente sereno che guarda con curiosità’ il mondo che lo circonda, che sa scrivere favole che insegnano il valore della rinuncia come strumento di arricchimento interiore. Luca e’ molto legato allo zio, unica persona della sua famiglia capace di trasmettergli l’amore di cui ha bisogno. Tuttavia, quando Luca ha 11 anni, lo zio, invalidato da una malformazione fisica, viene allontanato da casa e ricoverato in un ospizio perché rappresenta un elemento di disturbo nei canoni di perfezione stabiliti da mamma Santina. La rottura di questo rapporto esclusivo renderà ribelle e trasgressivo il carattere di Luca. Bilanciando sarcasmo e dramma l’Autore racconta con spettacolare intelligenza luoghi, situazioni, destini e personaggi. Questi ultimi, incrociati con le loro virtù e debolezze, descritti nella loro colorata dimensione umana, saranno coinvolti, insieme al lettore, in un’originale finale. A volte lo scrittore si sostituisce a Luca nel ruolo di narratore per toccare con ironia – ma, allo stesso tempo, con provocazione, temi forti e attuali che mettono a nudo le piaghe e le contraddizioni della nostra società: dalla solitudine degli anziani al dramma della pedofilia. In conclusione, il racconto e’ soprattutto un’opera di denuncia che spinge a riflettere sulla nostra realta’, le sue contraddizioni, i suoi pregiudizi e ipocrisie. Una realta’ dove spesso la ricerca del lusso e del successo a tutti i costi rende indifferenti e impedisce l’ascolto del cuore. ll segreto di Luca resta pero’ un segreto per tutti, forse fino alla fine.

L’ORA DI TUTTI di Maria Corti (Brossura | ISBN: 9788845246357)

Per coloro che conoscono Otranto solo per il romanzo di Horace Walpole, prima di iniziare la lettura di questo libro sarebbe il caso di dare un’occhiata a questa pagine di wikipedia: Battaglia di Otranto.
Questo romanzo storico di Maria Corti è ambientato proprio in quegli anni (1480) e ne racconta le vicende dandone una visione finalmente viva, terrena. La narrazione è assolutamente avvincente e godibile.
Nel contesto appena descritto si sviluppano 5 storie parallele e intrecciate tra loro, cinque protagonisti dall’estrema umanità e semplicità, ma è proprio grazie a questa semplicità che i personaggi del libro diventano intimi con il lettore che ne segue le vicende. E’ possibile apprezzarne gli atteggiamenti e i modi di fare estremamente legati alla tradizione, stili di vita che avremmo potuto osservare fino a non molti anni fa nei piccoli paesi del Salento.
Da sfondo a queste cinque vicende la “grande vicenda” che invece coinvolge tutta la città e tutti i suoi personaggi, una città di onesti pescatori che, dopo una lunga battaglia contro gli Ottomani sono costretti ad arrendersi e passano alla storia, loro malgrado (e proprio qui sta la bellissima rilettura della vicenda di Maria Corti), come gli 800 martiri di Otranto.
La pomposità della tradizione religiosa aveva negli anni appesantito la vicenda rendendola quasi irreale, mitologica. Maria corti la depura presentandoci dei personaggi indifesi, fragili e onesti ma in questo modo ingigantisce la loro umanità e li restituisce alla storia ancora più vivi e ancora più veri.

Erotica Escort

Erotica Escort è una raccolta dei miei diari sugli incontri reali relativi alla mia attività da accompagnatrice. Mi chiamo Alyssa Riva, sono una Escort ed una Scrittrice Erotica di Milano.
Erotica Escort è diviso in quattro parti fondamentali ; la prima è un ampia panoramica sulla mia vita, dai miei pensieri all’aspetto privato e che nessuno conosce. Poi ci sono due parti di diari, una riguarda le esperienze sessuali della mia adolescenza e l’altra gli incontri da escort di questo periodo. L’ultima parte sono aneddoti e richieste strane ricevute.

Puoi leggere il libro quì : http://www.lulu.com/product/ebook/erotica-escort/17968911

La Morte del Tempo

La prima problematica che si presenta nel leggere La Morte del Tempo di Giancarlo Petrella è proprio la sua varietà di forme e contenuti. In tale opera sono presenti molte forme stilistiche particolari, dal sonetto alle quartine, dalla prosa poetica alle riflessioni squisitamente teoretiche speculative ed altre ancora; e, in aggiunta, vi sono moltissimi temi: l’amore, il tempo, la giovinezza, l’eternità, l’arte, la malinconia. Pertanto una lettura generale e approssimativa risulta essere veramente difficile. La domanda che subito sorge spontanea è: “qual è il tema, il fondo di questo testo”. Una lettura unilaterale, a nostro avviso, è impossibile, non solo per l’eterogeneità, che come vedremo è apparente, del testo, quanto per la sua complessità organica e speculativa. Di speculazioni infatti si tratta; essa è, prima di essere un’opera poetica, un’opera riflessiva, un’opera che tenta di asserire qualcosa di filosofico sul tempo e sull’eternità, come il titolo affascinante indica.
I vari canti che compongono il testo, aventi molte forme stilistiche diverse, non costituiscono una raccolta eterogenea di liriche, ma precisamente una ‘cantica’ di un poema, come l’Autore stesso indica a più riprese nel testo stesso. È probabile, dunque, che le scelte stilistiche accompagnino i contenuti che di volta in volta si presentano; contenuti che seguono, a loro volta, un disegno ben preciso: comprendere le potenzialità dell’immaginazione. Tutto il viaggio – simbolico? – che viene narrato non è altro che la continua evocazione di paesaggi, sensazioni, pensieri provenienti da un ‘occhio’ che desidera vedere ciò di cui esso è capace; una sorta di rievocazione idealistica ove l’Io desidera comprendere se stesso come garante del mondo circostante.
Di sicuro le riflessioni dell’Autore si collocano in un’epoca post-nietzschiana, come è giusto che sia. La morte di Dio, l’inesistenza di un ordine morale del mondo, il primato dell’egoismo sulle virtù umane, la tracotanza di forze sono temi sempre presenti nella sua opera, pur se indirettamente mai trattati esplicitamente; l’Autore dà ‘per scontato’ che il lettore abbia raggiunto una certa maestria con tali problematiche. Che questo sia in qualche modo un limite dell’opera, ovvero dare per scontate alcune premesse, credo a mio avviso non possa non essere un enorme fraintendimento; non solo perché ogni opera deve sempre qualcosa ‘agli antichi’, ma più precisamente in quanto l’autore abbisogna di tali presupposti per introdurre le proprie tematiche.
Sostenere che questo viaggio, compiuto dalla voce narrante, sia un viaggio introspettivo è delimitativo ed un fraintendimento. Delimitativo in quanto si cerca di trovare una lettura unilaterale che non può esservi. Ed è un fraintendimento poiché non v’è un’analisi della psiche umana: non vi sono riflessioni sugli stati d’animi che man mano appaiono. I sentimenti, le emozioni, si presentano come accompagnate dai paesaggi, da delle riflessioni (non inerenti ad esse), per ciò non è possibile parlare di analisi introspettiva, riflessioni e descrizioni servono a dipingere lo sfondo con cui tali stati d’animi affiorano in superficie con veemenza, con impeto – ma senza cadere nel patetico o in un romanticismo ‘datato’. – Le emozioni sono, in qualche modo, i veri protagonisti ma si presentano al lettore senza la mediazione del concetto, ma con il loro impeto che più gli si addice.
Ovviamente anche nel gusto poetico l’Autore si colloca in un particolare corrente, anzi, più precisamente in due: nel neoclassicismo e nel simbolismo francese. Da un lato le parole ricercate e le forme mostrate hanno un gusto ed una raffinatezza degne di un artista che duella con i titani neoclassici; ma, dall’altro, l’Autore attribuisce e personalizza ogni oggetto, evento che viene nominato, mostrando un’arte nel rendere tutta la scena una mirabile forma di ‘olismo poetico’. Parole dovrebbero essere spese anche per l’incredibile musicalità di alcune pagine, per l’incredibile unione fra significato e significante. Vi sarebbero molte altre parole da aggiungere, ma questo mio breve scritto non voleva di certo essere né una guida, né un saggio su tale opera; il mio desiderio era solo ‘indicare’, in maniera seppur, ahimé, troppo generale, delle linee guida per leggere e gustarsi questo, a mio avviso, capolavoro.
Riporto interamente una poesia che particolarmente ho apprezzato, e per il simbolismo e per l’eleganza e per la raffinatezza nei temi; di certo non è né la più bella, né la più complessa, ma mostra quella capacità di unire varie forme stilistiche in un unico componimento. (dal canto V):


Elena sollecita silenziosa
d’un violino le virginee dormienti
trecce, incuriosita dall’armoniosa
pace; curiosi scivolano i lenti
rosei delfini verso l’inascosa
grotta, quasi armoniosa a’ crini rossi;
discendenti come l’appropinquarsi
in un tramonto del solare sonno.

Mesci le parole su nivee pagine;
glorificati che li occhi screziati
volgonsi su di esse; fine come aghi
le dita scivolano sui silenzi
irrispettati, d’un riso presagi;
non ingannarla mai, l’Imperatrice
dell’illusione, dacché santità
di venerazione consacri il verbo.

Le nuvol notturne come le beate
sopracciglia giungono sovra un triste
immobile fanciullo, da’ silenzi
scolpito, pensieroso putto; tacita
ella dal veron lo mira, marmorea
la sua pelle come inviolate pagine
scritte sul volto del Nulla; susseguono
le ere, ma una sola certezza giace.

Un glauco oceano ed un cielo vermiglio
scherzan sul peplo divino, lodato
affresco pur l’ombra del sopracciglio;
l’occhio che ver lei si muove avventato:
mille colori dolcemente ciglio
del sogno lo feriscono; si chiude
discendente come l’appropinquarsi
del sonno solare lo sguardo tacito.

A Mente Libera

Il libro parla della societa’ moderna in cui viviamo vista da un uomo come tanti.
Il lavoro, la casa, la famiglia sono tutti petali di un fiore che stanno intorno a noi
e che solo con una cambiamento di vita possono essere visti con altri occhi e
rivalutati per quelli che sono.
Inoltre il libro cerca di dare risposta alla domanda che tutti noi ci facciamo da quando
siamo nati: perche siamo in questo mondo ?
Questo libro scritto tutto di un fiato con la semplicità di un uomo come tanti,
che si appassiona ai piccoli e ai grandi temi della vita, va dritto al cuore delle cose,
per raccontarle con chiarezza e leggerezza a chi come voi si appresta a leggerlo.

Sito Ufficiale: http://amenteliberadimaxsp.blogspot.com/

Dio a perdere

Il nuovo stile
Nel panorama letterario italiano, la ricerca sulla parola quasi non esiste e nell’allucinante e colpevole calma piatta, critici avveduti e lettori appassiona-ti lamentano da decenni l’assenza di originalità nella trama e nello stile. Si è scritto “Dopo Sciascia e Calvino: il vuoto” ed è come se, dagli autori nostra-ni, la fantasia fosse bandita o irraggiungibile. Il novantanove per cento dei romanzi e dei racconti italiani sugli scaffali di librerie e supermercati sono fatti con lo stampino. Sono di maniera, esprimono banalità e il ritmo irri-tante, le costruzioni sintattiche stereotipate, i costrutti e i registri singhioz-zanti e afoni di questi artefatti in formato cartaceo o elettronico sono molto simili. Sembra si tratti di surrogati l’uno dell’altro o copie adulterate e, non da ultimo, razzolano nel cortile di casa e mancano totalmente del respiro in-ternazionale che nel villaggio globale è essenziale.
Chi s’azzarda a uscire dal seminato e a cantare fuori dal coro, viene sem-plicemente ignorato con una compiaciuta viltà crudele. Perché le stucchevoli cariatidi mummificate dall’establishment sanno bene che un’opera innovati-va potrebbe configurarsi come una tempesta che mettendo a nudo la po-chezza di certa insulsa editoria italiana, sconvolgerebbe il quieto tran tran di pennivendoli, incancreniti uomini nell’ombra e scrittorucoli prezzolati.
A seguito di La polvere eterna, Il disco di Nebra e Fiume di luce – romanzi richiedibili in qualsiasi libreria e disponibili su Internet – dobbiamo pertanto accogliere con estremo piacere, entusiasmo e interesse il dirompente Dio a perdere.
Con il quarto romanzo, Giovanni Nebuloni – un pioniere di un cambia-mento di rotta e mai dimentico che siamo circondati dalle immagini – pro-segue nel saputo avvicinamento artistico del linguaggio letterario al linguag-gio cinematografico, tout-court. Anche qui, i personaggi vivono realmente e più che mai si possono toccare. Le battute sono splendide e vere e lo stile è realmente differente, di rottura, pur risultando scorrevolissimo, esaltante e immediatamente comprensibile. La lingua derivata da Dante Alighieri in queste pagine si sposa con la grinta, la durezza, la vivacità e i coup de théâtre dei migliori film d’azione hollywoodiani.
Come i tre romanzi precedenti e di cui sopra, noi definiamo Dio a perdere un action-thriller. Così compiuta, Dio a perdere rappresenta un’espressione del tutto nuova sulla scena italiana e leggendola, c’era sorta spontanea una domanda: attualmente, chi è il più grande romanziere italiano?
Con l’accettazione della stesura di questa breve introduzione, noi abbia-mo già risposto.

La trama
La vicenda di Dio a perdere si snoda nell’arco di due settimane, da giovedì 26 giugno a lunedì 8 luglio. Come in una creazione di Roman Polanski, Clint Eastwood, Oliver Stone o della serie 007, l’incipit getta da subito il lettore nel vivo della storia. Daniele Calefi, un professore di Mineralogia all’Università di Milano Bicocca, è anche un agente dell’Aisi, l’Agenzia ita-liana per le Informazioni e la Sicurezza Interna ed è sorvegliato da tempo dai colleghi dell’Aisi e dalla Cia perché sospettato di connivenza con organizza-zioni segrete musulmane. La notte del 9 luglio, Calefi viene avvicinato da al-cune donne arabe che affermano di tendere ad essere jann, cioè “entità so-prannaturali e intermedie fra angeli ed esseri umani, gli jann erano stati crea-ti da Allah dopo gli angeli, prima di Adamo e dal più puro dei fuochi. Il fuo-co d’un vento bruciante, una fiamma senza fumo, un fuoco ardentissimo. Avevano la facoltà di muoversi con una velocità straordinaria e potevano procreare. Si nutrivano come esseri umani. Erano assimilabile all’elfo, al ge-nio della letteratura fiabesca occidentale o allo spirito magico della lampada di Aladino e lo stesso Profeta Maometto aveva asserito che, chiunque avesse visto Lui in sogno, avrebbe visto jann”. Le jann convincono il professore a seguirle, gli ricordano la sua vita passata e l’informano che potrebbe essere il tanto atteso, dalla comunità sciita, Tredicesimo Imam, “il Mahdi, il Maestro del Mondo, l’Imam degli Iman, l’Imam del tempo, il Signore dell’era presen-te”. Le jann gli preannunciano inoltre un terremoto sulla montagna dove il professore è solito recarsi: il Pizzo Alto in Valsassina. Sul Pizzo Alto verrà scoperta una caverna di uomini dell’età della pietra in cui sono presenti bat-teri esiziali, plasmodi che fanno gola alla Cia come una potenziale arma bat-teriologica…
Di più, ovviamente, non possiamo anticipare.
Basti evidenziare che l’idea fondante di Dio a perdere, come scrive l’autore è che “con il credere, in coscienza o no, di avvicinarsi a Dio, lo stesso uomo diventa e si fa dio. Un dio che si riduce a una sorta di variabile matematica. Un cassetto con l’etichetta Dio contenente l’uomo che pensa a dio, una reli-gione qualsiasi o anche una carriera o un amore. Dio come un involucro che aveva contenuto qualcosa di cui si era fatto uso. Un dio come un vuoto a perdere”.